
Party like it’s 2018 – Ethiopians celebrate their new year
21 Settembre 2025
“Fotografo la sorpresa della vita”
21 Settembre 2025C’è stato un momento in cui il compositore e l’esecutore si sono distaccati dal pubblico e un momento in cui le regole sono diventate gabbie. Quella stagione sta finendo. Per fortuna! — dicono lo scrittore Alessandro Baricco, che ha appena pubblicato un «libro eretico» sulla storia della classica, e il pianista Stefano Bollani . «La Lettura» li ha invitati a conversare sui suoni del mondo: sacri per i Greci, ubiqui con Spotify, passando per Corelli, Beethoven, Jobim e il jazz
conversazione tra ALESSANDRO BARICCO e STEFANO BOLLANIa cura dihelmut failoni
F olgorante. È il primo aggettivo che viene in mente dopo aver letto, non per una ma per due volte di fila, la — piccola come numero di pagine rispetto all’argomento trattato ma velocissima ed esaustiva di pensiero — Breve storia eretica della Musica Classica di Alessandro Baricco, ora in libreria per Feltrinelli. Tre anni di lavoro su un concetto di less is more («meno è di più») , sbucciando la storia della musica come una cipolla fino ad arrivare alla parte più intensa, quella che fa bruciare gli occhi e che ha determinato le differenze nei secoli in campo musicale. Una splendida sintesi, che suddivide l’evoluzione (in alcuni casi anche il suo contrario) dei suoni, dagli antichi ai giorni nostri, da quella che l’autore chiama La Prima Musica, quindi il canto monodico chiesastico, attraverso L’Età del Disordine e il Big Bang, La Musica Classica e la Moderna fino a quella della Diaspora. Lo immaginiamo Baricco, metaforicamente a sfrondare nel tempo alberi immaginari — come faceva Piet Mondrian nei suoi dipinti — cercandone l’essenza. Per arrivare all’anima della sua indagine. Togliendo il superfluo. Lo scrittore parla peraltro dei compositori anche come di «agricoltori di suoni» e usa verbi come «coltivare» e «addomesticare» la musica.
Fra le pagine Baricco lancia frecce, input, instilla curiosità, crea ponti e metafore aforistiche e inaspettate. Qualche esempio: «La polifonia. Fu come aprire un ventaglio che era rimasto chiuso per secoli». La musica di Monteverdi «era uno specchio che rifletteva il volto di una certa élite. La musica di Lully era uno specchio che rifletteva luce e basta». Parlando del Das Wohltemperierte Klavier, raccolta di 24 preludi e fughe che coprono tutte le tonalità, «Bach dimostra come andavano arate, seminate, coltivate. Suonata l’ultima pagina, l’impressione era di aver attraversato il mondo e averne raggiunto la fine. Non sembravano esserci altre terre coltivabili oltre a quelle»… Fantastico. La musica è per tutti e di tutti, sembra essere in ultima analisi il Leitmotiv che percorre e tiene insieme un libro senza indice e senza indicazione del numero delle pagine (in totale sono 144), con tanti aforismi e tre copertine diverse, una con Johann Sebastian Bach, una con Wolfgang Amadeus Mozart e una con Ludwig van Beethoven. Il motivo di queste scelte? «È un gioco» — dice Baricco a «la Lettura» — «mi piace continuare a giocare». Il libro non tratta l’opera. «È un’altra storia», spiega lo scrittore. «Ci sono molti commerci sulla via della seta tra quei due mondi che hanno avuto momenti di coincidenza. Facendo la storia della musica classica ho preferito non farmi disturbare dall’opera, se non quando è obbligatorio: con Richard Wagner».
Per parlare di questo libro (e altro), abbiamo incontrato lo scrittore a Roma, a casa di Stefano Bollani, celebre pianista di jazz, compositore e conduttore con la moglie Valentina Cenni della fortunata trasmissione televisiva su Rai 3 Via dei mattinumero zero. «La Lettura» è stata accolta in un bellissimo giorno di sole dal padrone di casa, dalla moglie e da Jobim, barboncino dall’aspetto principesco e dallo sguardo indagatore. «Jobim è in onore di Antonio Carlos Jobim», spiega Bollani. Baricco e Bollani la sera stessa avrebbero portato in scena (con Enrico Rava) al Parco della Musica lo spettacolo, ispirato al monologo dello scrittore, Novecento. Su come sia arrivato a una tale sintesi, Baricco dice: «Dipende dalla posizione, da dove guardi le cose. Il mondo. Se riesci a staccarti e andare molto in alto, alla fine vedi un disegno complessivo, una figura in cui tutto è più chiaro. Io, in questo libro, racconto quel disegno. Lì c’è tutto ciò che ho studiato per quarant’anni».
Nel libro Arcangelo Corelli (1653-1713), compositore barocco, poco noto al grande pubblico, compare come reale «anticipatore» della classica. Riferendosi ai suoi 12 concerti grossi, opus 6, lei scrive che è musica che sembra inaugurare spazi mai esistiti, che le frasi musicali «sgorgano da sé stesse, come in un’autogenesi» e si allargano «come anelli su un lago».
ALESSANDRO BARICCO — La figura di Corelli è una delle eresie che danno il titolo al libro. Di solito è catalogato soltanto come un pre. Nell’ottica delle storie otto-novecentesche, un’imperfezione che poi sarebbe arrivata a compimento in qualcosa di più formato.
In vita era però riconosciuto come un maestro.
ALESSANDRO BARICCO — Ai suoi tempi era il più grande. Ha il busto al Pantheon. Non si facevano mica busti ai musicisti. Soprattutto allora. Se ci fosse stata una classifica degli ascolti, lui sarebbe stato in vetta. Erano tutti allievi di Corelli o di qualcuno che era stato suo allievo. Fu un maestro fondatore, ma viene ricordato poco. Questo è un dato storico, ma per come è stata raccontata successivamente quella storia, lui è sfumato. Credo che lui sia stato il primo a dare forma a questa arrogante visione che era «adesso state lì tutti ad ascoltare e io faccio della musica senza una sola parola di testo». Mettendo insieme strumenti che era difficilissimo fare stare insieme in una forma assolutamente nuova. Era qualcosa di visionario.
STEFANO BOLLANI — Le storie della musica, ma in fondo poi anche le storie dell’umanità in generale sono storie di errori. Tutti i musicisti per esempio sembrano dei poveretti finché non arrivano figure come quelle di Bach e Beethoven. Il rischio grosso nel narrare la storia in questo modo è, come dice giustamente Alessandro, di prendere tutti per dei pre, e invece vivevano nel presente. E questo purtroppo si ricorda solo raramente.
Erano anche, in alternativa, presi per dei «post»…
STEFANO BOLLANI — Anche, certo. Infatti non solo quelli prima di Bach e Beethoven rischiano di passare per cretini, ma anche quelli che vengono dopo. M olta gente oggi ragiona sostenendo che la musica bella fosse quella di un tempo e adesso invece non si è più capaci di farla. È una visione spesso bizzarra quella che abbiamo noi esseri umani.
C’è una parte iniziale del libro sul passato remoto della musica, un periodo di cui si parla molto poco.
STEFANO BOLLANI — È la parte più densa del libro quella che spiega gli antichi, perché degli antichi non sa nulla nessuno, nemmeno chi ha studiato in Conservatorio. Vengono spiegati velocemente perché tu sei lì per imparare a suonare Beethoven, non per capire Aristotele, che lì non interessa a nessuno purtroppo. I Greci per secoli hanno suonato solo su certi modi (nel senso di scale musicali, ndr) e non si sono spinti verso la polifonia o ad accompagnare qualcosa con più strumentazione. C’era solo interesse a mantenere la musica come esperienza spirituale e perfetta. Questo ci sfugge molto.
ALESSANDRO BARICCO — I Greci due strumenti non li hanno mai sviluppati. A un certo punto qualcuno ha aggiunto, credo, 2 o 4 corde alla lira. È stata una rivoluzione, la loro all’inizio, durata 500 anni, quasi senza cambiamenti. La musica era data in natura, era concessione degli dei, non conquista degli umani e quindi non andava alterata. Nel giro di cinque secoli realizzarono un progresso linguistico e tecnico che Beethoven coprì in soli 24 anni, tra la sua prima sinfonia e l’ultima.
Baricco, ma lei ha pensato a un pubblico in particolare scrivendo questo libro?
ALESSANDRO BARICCO — Ho pensato, primo di tutto, a raccontare questa storia a me stesso, come faccio sempre quando scrivo un libro. Poi quando voglio essere comprensibile, mi chiedo: ma comprensibile a chi? A mia mamma, 93 anni? A mia moglie che è una musicista? A mio figlio che a sprazzi conosce la musica? E lì si apre un dibattito, diciamo più difficile, più complicato.
Che si è concluso in quale modo?
ALESSANDRO BARICCO — Sotto sotto — non lo dico quasi nemmeno a me stesso — il mio desiderio più alto era quello di fare un libro che potessero tenere in tasca, come un libretto rosso di Mao Zedong, i musicisti che adesso hanno vent’anni. Un testo che li liberi. Come è stato con un altro mio libro di musica, L’anima di Hegel e le mucche del Wisconsin (Garzanti, 1992, ndr) che finì invece in un silenzio totale. Anni dopo incontravo gente però che mi diceva: «Sai, io lì ero giovane, ma quel libro in realtà mi ha aiutato a uscire dagli schemi chiusi di quel periodo». Sì, più di tutti volevo che i musicisti lo tenessero in tasca, come un libro che li liberasse da certi dogmi. Non importava essere d’accordo su tutto naturalmente. Pensavo a un libro che ti desse la stura, pò! (imita il suono di una bottiglia di vino che viene stappata, ndr).
STEFANO BOLLANI — Con una nuova libertà, che non conoscevi prima, potevi uscire dagli schemi e rivedere, ripensare un po’ tutto.
Uno dei concetti trattati è quello del progresso.
ALESSANDRO BARICCO — La storia descritta come progresso è uno di quegli schemi. Tutti credono nel progresso della storia, ma poi è evidente il fenomeno per cui uno come Antonio Vivaldi (1678-1741, ndr) per esempio non credeva nel progresso. Voi fate così grossa differenza fra le opere sue e di qualcun altro del periodo? Nemmeno forse un musicologo che si alimenta di quelle cose… Faccio anche l’esempio di Carl Stamitz (1745-1801, ndr): non è che le sue ultime sinfonie siano più avanzate delle prime. Incomincia a essere così con Wolfgang Amadeus Mozart e poi con Beethoven esplode letteralmente tutto. Perché dalla prima all’ultima sinfonia è tutto un viaggio. Anche le ultime cose che ha scritto lo stesso Bach erano addirittura reazionarie: L’arte della fuga era una roba che perfino nel suo periodo veniva considerata al limite della noia. Non esisteva ancora l’idea che l’artista dovesse superarsi.
Rimanendo nello stesso periodo, come colloca invece Georg Friedrich Händel?
ALESSANDRO BARICCO — Possiamo dire che ci sia uno sviluppo? Faceva lo stesso spettacolo per la quarta volta, aggiungendo delle varianti. Bello, se vogliamo, ma non è il progresso di Beethoven, che strappa il linguaggio, che cambia le abitudini del pubblico e il tipo di rito.
STEFANO BOLLANI — Alessandro, giustamente lo dice all’inizio che questo libro si limita a una cosa ben precisa: la musica classica. Mi sposto un momento. In altre musiche nel mondo esiste ancora la resistenza al progresso. Stavo pensando mentre parlavamo a João Gilberto (1931-2019, ndr), che sembra caduto sulla Terra. Nel 1959 canta Desafinado spostandola ritmicamente un po’ rispetto all’originale di Jobim e appare come un rivoluzionario, perché canta in una maniera che nessuno aveva mai sentito prima, ma 50 anni dopo c’è ancora Desafinado cantata in quella maniera e lui tutte le sere, quando non faceva concerti, se ne stava a casa a cantare e ricantare, anche 60 volte di fila, la Garota de Ipanema : me lo hanno raccontato persone che frequentavano casa sua. Lui era caduto sul pianeta Terra con quella canzone e quella canzone portava avanti. Ne imparava una nuova ogni cinque anni: era la sua idea di progresso.
Viene pure da pensare, per associazione, al concetto di conservazione nelle musiche etniche…
STEFANO BOLLANI — Anche nella musica che si usa per meditare, la musica indiana, non c’è un’idea per cui dobbiamo superarci, anzi lì si vogliono mantenere in vita queste tradizioni e si fa il possibile per dare il meglio. Tutto è molto nel presente e casomai un po’ nel passato, ma questo passato viene vissuto davvero. I ragazzi in India che imparano le tabla, studiano le cose antiche del loro popolo, cosa che invece noi non facciamo affatto. E quelle cose le suonano ancora: sono riusciti a tramandarle, quindi è ovvio che diventano sacre, perché là fuori c’è un mondo invece che vuole mischiarle al rock’n’roll, al funk… Per loro la musica è una religione, è una cosa sacra, per cui è difficile mischiarla — che so — a un’orchestra sinfonica. Sarebbe un’eresia.
ALESSANDRO BARICCO — È una posizione molto simile a quella dei Greci, di cui si parlava. Questo per noi è incomprensibile, ma nella realtà che racconta Stefano, loro fanno esattamente così. Ciò spiega pure come nella nostra antichità, per passare nelle composizioni da una voce a 2 e a 4, i musici ci abbiano impiegato 150 anni.
STEFANO BOLLANI — Noi siamo ancora sotto l’influenza dell’idea romantica. Il musicista sale sul palco, supera sé stesso, supera i confini, è un virtuoso. Se non è un virtuoso ed è uno più pensoso, entra in un’altra zona, ma altrimenti c’è un’idea ancora di pianista che sale sul palco da solo. Doma questo strumento enorme. E di questo eroe romantico, però, così come ci è arrivato, per esempio, si è completamente persa l’idea che improvvisasse. Ve la propongo come argomento, perché io capisco che non avendo i dischi non possiamo dire quanto Liszt, Paganini e Mozart improvvisassero sui loro stessi brani. Però sappiamo storicamente che finché non è arrivato un editore a dirgli «pubblicami il tuo Concerto per pianoforte e orchestra», Mozart tutte le sere lo risistemava nelle sue parti, nelle cadenze…
Lei si chiede giustamente perché questa idea legata all’improvvisazione sia sparita e relegata solo negli angoli del jazz.
STEFANO BOLLANI — Sì, e me lo chiedo spesso. Nella storia della musica, come mi è stata raccontata, l’idea che Beethoven si sedesse al piano e improvvisasse è bislacca, perché Beethoven è un grande architetto che organizza la musica e quindi sta scrivendo quella nota perché gliel’ha detto Dio, come sosteneva lui stesso. Però c’era pure un altro aspetto, quello del Beethoven che quando si sedeva al pianoforte diventava anche un maneggione. Perché questo aspetto dell’improvvisazione è taciuto? Solo i jazzisti improvvisano? No, nella musica classica, prima col basso continuo e poi nei brani romantici, si improvvisava. Perché non parlarne?
ALESSANDRO BARICCO — Stefano, ma tu credi che Beethoven improvvisasse?
STEFANO BOLLANI — Sì.
ALESSANDRO BARICCO — Lo sappiamo?
STEFANO BOLLANI — Sì. Lo sappiamo di Mozart e anche di Beethoven. Così come di Franz Liszt e Niccolò Paganini: se erano in grado di scrivere quelle cose, non erano capaci di inventarle anche sul momento?
ALESSANDRO BARICCO — Loro due sì. Erano un’altro tipo di figura. Però Clara Schumann non credo che improvvisasse.
STEFANO BOLLANI — Questo non lo so. Mi piace però immaginare Liszt in concerto a Napoli che come bis eseguiva ’O sole mio con arpeggi infiniti, facendo un figurone. Ma ogni sera lo suonava in maniera diversa.
ALESSANDRO BARICCO — L’improvvisatore, ahimè, è considerato un anarchico che ti sfugge, è volatile… È stata preferita sempre la religione dell’esecuzione.
Il compositore americano Elliot Carter diceva che l’improvvisazione è un rifiuto di responsabilità.
ALESSANDRO BARICCO — Buona domanda per Bollani. Gliela giriamo subito.
STEFANO BOLLANI — Può essere il rifiuto dell’ego dell’architetto, dell’idea che noi prendiamo questo caos, gli diamo un ordine e cerchiamo la perfezione. È un rifiuto, un rifiuto della ricerca della perfezione a tutti i costi, direi, perché l’idea è questa: «Esca quello che esca, io sto improvvisando», che sembra un atto da Rodomonte, in effetti; voi avete pagato un biglietto, io improvviso. Però è anche un atto di onestà, di umiltà e di sincerità. E il sottotesto è: «Se la scrivo non è che mi venga meglio». Io non faccio parte della categoria che cerca la perfezione, che la scrive, la modella, la cesella, la impacchetta per farla poi suonare in quel modo per sempre. Ma faccio parte di una categoria in cui vediamo cosa succede oggi, in questo momento preciso. È una divisione netta.
Spostando il discorso sulle parole, esiste lo scrittore che cerca la perfezione, cesella ogni parola e ce n’è un altro che invece la lascia fluire, improvvisando?
STEFANO BOLLANI — Alessandro, questa è per te. Ma chi sono gli scrittori improvvisatori secondo te?
ALESSANDRO BARICCO — Direi che non ce ne sono.
STEFANO BOLLANI — Stefano Benni? Stavo rileggendo Comici spaventati guerrieri, e in effetti è scritto, non è solo una serie di improvvisazioni, di assoli che affida ai suoi personaggi…
ALESSANDRO BARICCO — Lui lavorava molto. Poi, ecco, sulle poesie aveva dei lampi sicuramente, però nei suoi romanzi c’è un gran lavoro dietro. Scripta manent, noi comunque alla fine facciamo una roba e dopo 35 anni qualcuno viene e ti dice: «Beh certo questa frase lì…».
«Scripta manent», d’accordo. E quando parla?
ALESSANDRO BARICCO — Quando parliamo noi siamo jazzisti a tutti gli effetti. In quel caso mi riconosco molto nella figura dell’improvvisatore.
In una pagina del libro affronta i «compositori indolori», definizione che usa anche per grandi autori, quali Claude Debussy, Gabriel Fauré, Maurice Ravel… Li ha ridimensionati, se ci passa il verbo?
ALESSANDRO BARICCO — Quella è musica che a me piace, che ascolto molto volentieri, che suono malissimo, ma pur sempre molto volentieri. Debussy, Ravel… coltivavano orti deliziosi senza fare male a nessuno. Però, guardando il tutto con distacco e dall’alto come il disegno di cui parlavo prima, mi sono anche reso conto che a un certo punto della storia della musica — e cioè dall’ideologia di Richard Wagner in poi diciamo — la violenza, il dominio, la torsione feroce che gli uomini hanno esercitato sul mistero fantastico dei suoni, per poterli domare completamente e per trarne un piacere sempre più libidinoso, con un modello di supremazia dell’uomo sulla natura, alla fine oscuravano dei fané come Debussy e altri, che possiamo considerare grandi stilisti che inseguivano sì le ribellioni, ma solo sublimi.
Ben diverse dalle rivoluzioni dei due più importanti compositori del primo Novecento, Arnold Schönberg e Igor Stravinskij che nel libro lei definisce «gli autori di un golpe». Se vuole, parliamo di Schönberg e della dodecafonia.
ALESSANDRO BARICCO — Sognò di liberare la musica dalla schiavitù della tonalità, ma non dalla gabbia della compressione a dodici suoni, va aggiunto: strano esempio di liberazione strabica. Qui l’eretico del titolo ci sta, perché lì c’è proprio una specie di narrazione maggiore, ufficiale, che è stata molto invasiva per anni e adesso si è molto sfrangiata. Ma in passato è stata molto dura. Secondo me ha anche espulso molti musicisti di quei tempi, perché era una scuola talmente ideologica, che chi aveva libertà di pensiero e talento, faceva altro.
STEFANO BOLLANI — Li chiamiamo punti di rottura. Schönberg voleva inventare un nuovo sistema per fare musica. Per forza di cose doveva rompere con quello di prima: d’ora in poi tutti avrebbero dovuto scrivere nel nuovo sistema che aveva inventato. Questa era la sua idea. Stava a Vienna, frequentava ambienti importanti e quindi per forza di cose ce l’abbiamo nel Dna. Chissà perché — e me lo sono sempre chiesto — è stato deciso che questo sistema fosse più libero di quello precedente. Non lo è affatto. È un’impressione. Sostiene che le 12 note sono tutte uguali. Sì, d’accordo, ma io con quel sistema chiamato dodecafonia non posso fare una melodia, non posso più fare un Do maggiore. Perché? È un sistema che scardinando le regole ti dà apparentemente più libertà e invece ti infili in un altro sistema di regole, come è normale che sia, in quanto siamo capaci solo di costruirci delle regole, perché altrimenti che faremmo?
ALESSANDRO BARICCO — Nel libro cerco di spiegare, di capire come mai sia andata così. Cioè perché, ad esempio, il grande mecenate della seconda metà del Novecento, che erano le democrazie, abbiano scelto la musica atonale e la musica dodecafonica come la musica da spingere. Certo, potremmo risolverla serenamente, dicendo che era fondata su una serie di equivoci notevoli. Quando ero giovane, andavo ad ascoltare i concerti di Maurizio Pollini alla Scala. Con tutto il rispetto e con tutto l’affetto che ho nutrito per questo grandissimo pianista, nei suoi concerti suonava Beethoven nel secondo tempo e Luigi Nono nel primo.
Quale era il messaggio che le arrivava?
ALESSANDRO BARICCO — Il messaggio era preciso: non è successo niente, la musica classica sta continuando, ci deve essere una prosecuzione, uno sviluppo, un progresso. Non vi piace? Ascoltatela e vi piacerà. Anche le prime sonate di Beethoven hanno inquietato, anche all’uscita della sua Settima qualcuno gli diede del pazzo… Pollini e altri grandi interpreti erano figli di un’epoca, durante la quale su queste cose erano molto severi.
Bollani, nel jazz il paragone è immediato…
STEFANO BOLLANI — L’analogia è con quello che, ancora più inspiegabilmente, continuiamo a chiamare Free jazz. Free, libero. Ma da cosa? Libero dalle strutture precedenti, dall’obbligo di suonare sugli accordi per essere per forza tonali… Liberi quindi, benissimo. Risultato? In un gruppo di Free jazz — mi racconta Enrico Rava che ha vissuto quella stagione — lui non poteva fare una melodia che fosse una, che ricordasse un accordo maggiore o che fosse riconoscibile. Chi suonava così stava facendo musica commerciale, dicevano i padri del Free jazz. Allora smettiamo di chiamarlo Free jazz e smettiamo di dire che la dodecafonia fosse un momento di esplosione di libertà, perché sono solo nuovi sistemi, con nuove regole. Per fortuna dopo c’è stata un’evoluzione nel jazz che ci ha insegnato che bisogna ricordarci di essere liberi, sì, ma che ognuno trovi delle proprie regolette in questa libertà. Magari senza dirlo a voce alta.
Stiamo sul jazz. In «Novecento» c’è la definizione aforistica più bella ed efficace su questo genere: «Quando non sai cos’è, allora è jazz!». Che va di pari passo con quella di Louis Armstrong: «Amico, se devi chiedere cos’è il jazz, non lo saprai mai».
ALESSANDRO BARICCO — Chiediamo un intervento del maestro Bollani…
STEFANO BOLLANI — Penso che siano entrambe azzeccate. Parlando della tua: è abbastanza breve da lasciarti nel dubbio sull’effettivo significato e quindi suona poetica: Quando non sai cos’è, allora è jazz. Fermi tutti, ci sarebbero mille domande da fare. Si apre un capitolo: vuol dire che non lo capisco o vuol dire che è una cosa nuova…? Lasciando perdere l’analisi, la frase secondo me suona molto bene perché a me rimanda all’idea di Paganini che non ripete, cioè a una cosa che sta accadendo in quel momento e che non riconosci. A differenza del mago, che fa l’errore clamoroso di dire a tutti cosa sta per fare e se non ci riesce fa poi una figuraccia, il jazzista non dice a nessuno cosa sta per fare.
Cosa pensate invece delle nuove fruizioni della musica, delle piattaforme, della tecnologia? A che cosa hanno portato?
ALESSANDRO BARICCO — Io sono affascinato dall’articolazione sconfinata di quello che si può sentire, dal fatto che con l’avvento di Spotify, così già un pochino prima con l’iPod, si è schiacciata la linea del tempo. Quando mio figlio aveva 14 anni, ascoltava Mina ed era una canzone sua. Adesso ne ha 19 e sente canzoni che erano la mia giovinezza, non la sua. Lui, pensavo una volta, dovrebbe avere le sue. Invece no. Si è tutto contratto su un’unica linea del tempo, per cui non ci sono più generazioni che hanno la loro musica. Se Spotify dicesse che cosa ho ascoltato sarebbe un bello spettacolo, perché c’è veramente tutto. Alla fine vivo lì dentro e consumo meno musica classica di quanto facessi a vent’anni.
Ma alla fine dei conti, cos’è la musica per lei?
ALESSANDRO BARICCO — È spostamento di energia da qui a là, se non la sposti, se è solo erudizione, per me non ha senso. E non mi importa a che genere appartiene. Se mi segue e mi trasferisce dell’energia succhiata dal mondo e io me la porto a casa, allora sì che va bene.
STEFANO BOLLANI — Tu parli di energia, ma potresti usare anche la parola sciamano, oppure showman. Credo che la dimensione che per fortuna non perderemo, è quella del rito, perché mi sembra la più antica. Sì, la musica come rito. Rito collettivo in uno scambio di energie, questa è la mia speranza.
ALESSANDRO BARICCO — Il rito ottocentesco secondo cui il musicista è sull’altare e il pubblico sull’inginocchiatoio sta finendo. Fra l’altro non era nemmeno così in origine: gli ascoltatori non stavano mai zitti all’opera e credo che nemmeno nelle accademie di Mozart o di Beethoven ci fosse comunque quell’attenzione religiosa.
Eppure oggi all’opera e ai concerti classici non vola una mosca. Ci sono regole ferree.
ALESSANDRO BARICCO — (Ride). Vi racconto un aneddoto. Sono andato al festival wagneriano di Bayreuth, in Germania. Mi ha subito colpito il silenzio religioso della sala: lo sentivo addosso. Una cosa incredibile. A un certo punto mi giro verso mia moglie e le dico una, e sottolineo una, piccolissima cosa sulla regia. Un lui e una lei, giovani, sono seduti davanti. Lui si gira inchiodandomi con lo sguardo. Lei guarda lui, lo sprona, come a dire: «Ma non fai nulla per interrompere questa oscenità?». In questo clima, durante Tristano e Isotta mi squilla fra l’altro, forse per due secondi, il cellulare in tasca.
STEFANO BOLLANI — (Scoppia a ridere). Nooooo… proprio a Bayreuth poi. Cosa ti hanno fatto?
ALESSANDRO BARICCO — Credo di avere fatto l’azione più veloce della mia vita per spegnerlo. Nessuno ha fatto nulla in realtà. Era talmente una bestemmia la mia, che forse non erano in grado di reagire. Era troppo…