STEVE MCCURRY
Il Siena Awards Photo Festival si inaugura con la laurea ad honorem al grande reporter Che qui si racconta a partire dall’attualità
di
Michele Smargiassi
«Non c’è alternativa», risponde Steve McCurry quando gli chiedi se la fotografia ha un futuro. O meglio, l’alternativa è solo il buio, ti spiega. E nel buio l’uomo non conosce più l’uomo. Con questo spirito, a 75 anni, uno dei miti viventi della fotografia mondiale accetta il 24 settembre dall’Università di Siena (dove è ospite d’onore del Siena Awards Photo Festival) la laurea honoris causa in Antropologia e Linguaggi dell’immagine.
Sembra che lei stia per diventare un antropologo…ma in un certo senso tutti i fotografi sono antropologi, o no?
«Forse non vale per tutti i fotografi, ma se l’antropologia è concentrarsi sui comportamenti umani, su quanto il mondo sia uno solo ma fatto di differenze, credo sia quello a cui mi dedico da mezzo secolo. Ho visto le cose accelerare drammaticamente, in questo intervallo. Tutto va veloce.
Se vogliamo capire come siamo arrivati fin qui abbiamo bisogno di documenti».
Lei ha scelto di viaggiare soprattutto fra Paesi e culture diverse dalla sua. Perché?
«A dodici anni, a casa di mia nonna, vidi un numero della rivistaLife sul monsone in India. Erocompletamente affascinato, mi dissi: devo andare là. Ma la prima spinta alla curiosità è stata l’immaginazione: io quei posti li sognavo, li costruivo nella mia mente prima di vederli»
Prima si laureò cum laude all’università della Pennsylvania.
«Non puoi capire l’India o la Cina non avendo un’idea del loro passato. Mi laureai in Immagine e Teatro per avere gli strumenti giusti, ma per me è sempre stato necessario andare là col corpo… Ho cominciato a viaggiare prima che a fotografare. Solo dopo ho capito che l’obiettivo ti obbliga a sperimentare il mondo direttamente».
Il suo precoce reportage sull’Afghanistan fece storia. Cosa l’ha spinta ad abbandonare le hard news per una fotografia più orientata a rappresentare la vita umana sul pianeta?
«Cosa ti fanno capire sull’uomo immagini di cannonate e armi?
Raccontare gli eventi è importante: sono stato in Kuwait per la guerra del Golfo, due volte in Ucraina… Ma avevo in mente il mio progetto sul monsone e mi dicevo: Steve, nella vita hai solo un colpo in canna, quel che vuoi fare devi farlo subito. Ora che ho più di settant’anni e comincio a perdere coetanei e colleghi, capisco quanto sia stato importante fare quel che volevo. E continuo ad aver voglia di immortalare meglio la gente a Benares o all’Avana».
Cosa c’è dietro un ritratto? Una cultura o solo un volto tra la folla?
«La vita scrive sulle facce, spesso duramente. La cosa difficile è
rispettare quei segni…».
Ho cercato di non chiederle della ragazza afghana, la sua foto più nota. L’ha ritratta di nuovo molti anni dopo…
«È impossibile guardare un ritratto senza aggiungervi significati, e quello è un esempio significativo. Sharbat Gula era un’orfana, una rifugiata. Nel suo sguardo inquietante leggiamo resilienza e dignità, ma lei era semplicemente spaventata da uno straniero che non aveva mai visto.
Nel ritratto più recente ogni speranza in quello sguardo sembra perduta. Vi leggiamo il nostro senso di colpa di occidentali con le lenzuola pulite e il riscaldamento in casa».
Lei frequenta il nostro Paese.
L’Italia è più facile o più difficile da fotografare dei Paesi “esotici”?
«Può sembrare più facile, perché siete così ricchi di storia e di borghi che sembrano cartoline. Ma ci sono anche grandi città strapiene di turisti che nascondono la vita della gente… Il problema è il troppo… Ti chiedi: come posso trovare una storia in questo caos? L’Italia ti costringe a concentrarti molto».
Lei ha rischiato la vita più volte.
Nelle zone di guerra oggi i fotografi sono bersagli espliciti, non vittime collaterali… Se la fotografia fa ancora paura, vuol dire che è viva?
«Vedere ciò che accade in Darfur, aGaza, in Ucraina serve prima di tutto a tenere viva la capacità di relazione col mondo. Chi rischia la vita per questo, professionisti o semplici cittadini, ci chiede di aprire gli occhi sulle persone, non vuole solo documentare scenari politici… Vedere un bambino che muore di guerra o di fame ti obbliga a rompere il silenzio. Per questo i reporter sono scomodi. Anche in Vietnam ai combattenti non interessava se eri soldato, civile o fotografo, ma adesso è peggio».
Intanto l’Intelligenza artificiale produce immagini che vogliono soppiantare la fotografia del reale.
«La pubblicità, la moda se ne serviranno. Ma un punto di vista non puoi chiederlo all’Ia, che può solo mostrarti quello che già sa. La coscienza ha bisogno di conoscere quel che non si aspetta. L’inatteso resterà la materia del nostro lavoro».
Sua figlia ha un nome italiano, Lucia. Che mondo vedrà fra cinquant’anni?
«Fino a che gli uomini vivranno le loro storie, si potrà fotografarle. Ma stiamo andando nella direzione sbagliata: siamo pigri, guardiamo la partita la domenica e lunedì lavoro lavoro lavoro. Mi spiace, la lascio con un pensiero pessimista. Ma è inutile produrre immagini se nessuno fa lo sforzo di guardare».