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Mediobanca non è più la banca d’affari indipendente che per decenni ha dettato i tempi del capitalismo italiano. Con l’offerta di acquisto e scambio lanciata da Monte dei Paschi di Siena, Siena controlla ormai oltre il 70% del capitale e ha in mano le chiavi della governance: consiglio di amministrazione dimissionario, CEO Alberto Nagel pronto a lasciare, nuove nomine in arrivo. Non è solo un cambio di proprietà: è un cambio di pelle. Il marchio resterà per convenienza, ma l’autonomia è svanita. Piazzetta Cuccia non è più la regista silenziosa del capitalismo nazionale, è diventata una pedina di un progetto più grande, il progetto di Lovaglio.
L’amministratore delegato di MPS ha raggiunto l’obiettivo che si era dato: due terzi del capitale. Non lo interessava fare numeri da annuncio, ma arrivare al punto in cui Monte avesse mano libera. Ora inizia la parte più difficile: costruire il futuro. Non ci sono sinergie di costi da spremere, come accade in altre operazioni. La scommessa è sulla crescita, sullo sviluppo dei mestieri già presenti, sulla capacità di Mediobanca di conquistare nuove quote di mercato e produrre redditività. Lovaglio non vuole rivoluzioni interne, ma una transizione ordinata: per questo guarda sia a candidati interni sia a figure di alto profilo internazionale per guidare la nuova stagione. Nel frattempo, punta ad allargare i piani di incentivazione, a motivare il personale, a far capire che non si tratta di una presa di possesso ostile, ma di una tappa in un percorso più ampio.
La sfida è anche di governance: entro ottobre dovrà essere presentata la lista per il nuovo cda di Mediobanca e qui si gioca molto. Korn Ferry, la società di head hunting, è al lavoro per chiudere la rosa di nomi in tempi strettissimi. In primavera scadrà il consiglio di amministrazione di MPS e Lovaglio vuole arrivare a quel momento con i compiti fatti: un gruppo integrato, una nuova strategia, una redditività meno dipendente dai dividendi di Generali, più vicina alle logiche di mercato.
In altri casi di aggregazione bancaria, come Intesa Sanpaolo o UniCredit, le banche incorporate avevano conservato almeno in parte identità, spazi di autonomia, radicamento locale. Qui no: non c’è fusione tra pari, ma un ribaltamento di equilibri. Mediobanca perde il suo ruolo di arbitro e di regista, e diventa una divisione del gruppo senese. Le strategie difensive che aveva messo in campo, come il tentativo di rafforzarsi nel wealth management o di crescere con acquisizioni mirate, sono state stoppate o dovranno essere riscritte alla luce della nuova proprietà.
Quel che resta è soprattutto il guscio: il marchio, qualche asset, forse parte del portafoglio clienti. Ma la cultura aziendale, le persone chiave, il ruolo di arbitro del capitalismo italiano sono già svaniti o stanno per esserlo. Mediobanca non scompare, ma diventa il motore di una creatura nuova, che qualcuno chiama già MedioMonte, più utile al disegno di MPS e del governo che alla sua stessa storia. È la fine di un mito: di quell’antica Mediobanca resta poco, pochissimo.