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C’è un confine che non andrebbe mai superato: quello che separa la memoria dal comizio. Quando la morte di una persona diventa lo strumento per eccitare folle, lanciare slogan, infiammare divisioni, significa che la politica ha perso ogni senso del limite. Non importa se la persona era controversa, amata o odiata: la tragedia resta tragedia. E usarla per mobilitare consenso è un atto di cinismo estremo.
Nelle ultime settimane abbiamo assistito a qualcosa che somiglia più a uno show elettorale che a un momento di raccoglimento. L’immagine di uno stadio pieno di gente urlante, rabbiosa, non restituisce il ritratto di un Paese che riflette ma di un Paese che si spacca ancora di più. È qui che nasce la vera preoccupazione: quando la persona viene ridotta a bandiera, l’umanità scompare.
La “chiave inglese”: un simbolo di paura
In Italia Giorgia Meloni cavalca la stessa onda. Alla festa di Gioventù Nazionale ha parlato di “tentativi di demonizzarci” e di “minacce di morte”, con toni da battaglia permanente. Ha trasformato il ricordo di un omicidio in un appello identitario: “Il loro odio non è finito con la morte di Kirk”. È un frame preciso, costruito per dividere in due il Paese: noi e loro, buoni e cattivi, patrioti e nemici.
E quel passaggio sulla “chiave inglese”, usato come simbolo di chi picchiava per punire chi scriveva un tema sulle Brigate Rosse, è ancora più rivelatore. Non è solo un ricordo personale: è un messaggio. È dire al pubblico che l’avversario politico di oggi è la continuazione di quella violenza di ieri. È un salto logico che serve a legittimare l’idea di essere sotto assedio, a giustificare la chiusura del dibattito, a spingere chi ascolta a vedere chi critica non come oppositore, ma come nemico.
Questa retorica è la scorciatoia dei regimi. Ti fanno credere che sei sotto assedio per costringerti a scegliere il campo, per cancellare le sfumature, per far sembrare naturale il passo successivo: censura, repressione, controllo.
È lo stesso meccanismo che abbiamo visto in quello stadio americano pieno di gente urlante. Non era un memoriale, era un raduno di tifoseria. E la politica ridotta a tifo è la forma più povera di politica. Non c’è ragionamento, non c’è confronto: solo cori, simboli, facce dure e applausi a comando.
Chi governa in questo modo non vuole cittadini, vuole tifosi. Non vuole pensiero critico, vuole fede cieca. È per questo che si attaccano università, professori, libri, comici, chiunque rompa la narrazione. Il potere ha paura della cultura, perché la cultura non applaude: domanda.
La risposta a tutto questo non è abbassare la testa. La risposta è alzare il volume. Leggere, discutere, criticare, ridere persino di chi si prende troppo sul serio. Difendere il diritto di dire che quelle idee – quelle razziste, sessiste, reazionarie – erano sbagliate, e restano sbagliate anche se chi le ha pronunciate è morto.
La vera minaccia non è la “chiave inglese” dei fantasmi del passato, ma il manganello ideologico che ci vogliono mettere in testa oggi. Non si esce dalla paura facendo i soldatini di un leader: si esce dalla paura imparando a pensare.