COSA POSSO FARE IO PER GAZA
27 Settembre 2025
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27 Settembre 2025INTERVISTA AL GIORNALISTA DI HAARETZ
Il reporter sopravvissuto alla strage del 7 ottobre: «È nel pieno interesse di Israele concludere ora la guerra. Ma gli interessi del paese non sono allineati con le priorità politiche del premier. La soluzione dei due Stati rimane la migliore, ma ogni giorno diventa meno realizzabile»
Gerusalemme – Amir Tibon, giornalista del quotidiano israeliano Haaretz, fu attaccato dai miliziani di Hamas a casa sua nel kibbutz di Nahal Oz il 7 ottobre. Nel libro Le Porte di Gaza, in uscita il 15 ottobre per Orizzonte Milton, il racconto di quel giorno drammatico e del salvataggio da parte di suo padre Noam, generale dell’esercito in pensione, si intreccia con la storia di quelle comunità di pacifisti al confine con Gaza e con la storia del conflitto arabo-israeliano. Parla dal nord di Israele dove da quasi due anni vive con la sua famiglia come «rifugiato nel suo paese».
Tibon, Israele è sempre più isolato sulla scena internazionale. Che impatto può avere questa situazione sulla guerra di Gaza?
La continuazione della guerra è la causa principale delle continue sofferenze degli ostaggi. Finché non raggiungeremo un accordo succederanno tre cose. Gli ostaggi continueranno a soffrire, potrebbero morire e le spoglie di quelli già morti potrebbero essere perse per sempre.
Moriranno più civili a Gaza e, dal punto di vista israeliano, dovremo affrontare più pressioni e isolamento. Terzo, moriranno più soldati israeliani. Quindi Israele ha tutto l’interesse a raggiungere un accordo e a concludere la guerra. Ma purtroppo gli interessi del paese non sono allineati con le priorità del premier.
Sembrano anche non essere allineati con la posizione degli Usa, il principale alleato del governo Netanyahu.
In questo momento l’America è la sola rimasta schierata al fianco del governo israeliano. Quindi, ci stiamo affidando completamente a Trump. Ma Trump cambia spesso idea. Storicamente, Israele ha avuto una politica estera incentrata sugli Usa, ma si assicurava di avere anche il sostegno di altri. Ora vediamo Netanyahu puntare tutto su Trump e questa è una scommessa azzardata. Forse funzionerà. In caso contrario, rimarremo senza amici e questo non è un bene per Israele.
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Vari alleati storici di Israele hanno riconosciuto formalmente lo Stato di Palestina.
Il riconoscimento internazionale della Palestina non è un vero problema per Israele. È un risultato simbolico per i palestinesi, ma non cambierà nulla. Ciò di cui Israele dovrebbe preoccuparsi è cosa succederà quando i governi si renderanno conto che, dopo averle provate tutte, rimane solo la realtà di un unico Stato dal fiume Giordano al Mediterraneo e chiederanno a Israele di garantire pari diritti a tutti.
Chi sta impedendo che ciò accada, però, non è Netanyahu, ma Mahmoud Abbas. Mantenendo il potere nella corrotta Autorità nazionale palestinese, sta alimentando la finzione che ora esista una possibilità per la soluzione dei due Stati.
Il suo libro racconta la storia dei kibbutz lungo la Striscia di Gaza e che cosa rappresentavano.
Negli anni ’50 Israele era un paese giovane circondato da nemici. Oggi abbiamo accordi di pace con Egitto e Giordania, e forse presto anche con la Siria. Creando comunità di civili al confine, in luoghi visibili dall’altra parte, David Ben Gurion [padre fondatore di Israele] voleva inviare un messaggio ai paesi arabi: Israele è qui per restare. E c’era la speranza che, se l’altra parte avesse interiorizzato questo, si sarebbe potuto aprire un varco per la pace.
Ha funzionato? È difficile dirlo, perché anche se abbiamo alcuni accordi di pace, stiamo ancora combattendo con i palestinesi e abbiamo individui, soprattutto in questo governo, che stanno provando a cacciare via milioni di persone. In entrambe le parti del conflitto ci sono visioni massimaliste: «Vogliamo tutto il territorio e niente per il mio vicino». Con questi atteggiamenti si ottiene una guerra senza fine.
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Lei crede ancora alla soluzione dei due Stati?
È la migliore possibile, ma ogni giorno diventa un po’ meno realizzabile. Quando ci sarà un consenso sul fatto che ci stiamo spostando verso una realtà a Stato unico, le implicazioni per Israele saranno disastrose. Israele sta già lottando economicamente.
Ci sono ampie fasce della popolazione che sono ai margini, come gli ultraortodossi e i cittadini arabi di Israele. Immaginiamo che a queste si aggiungano milioni di palestinesi che diventano cittadini di Israele e che possono contribuire poco fiscalmente, perché sono una popolazione molto povera. Questa è la ricetta per il suicidio nazionale. Il vero interesse di Israele è che i palestinesi abbiano il loro Stato e la loro economia e che si trovino modi per aiutarli a essere più prosperi.
Haaretz è molto critico col governo Netanyahu. È diventato più difficile negli ultimi tempi scrivere per un giornale così?
Penso che questo sia un periodo difficile per tutti in Israele. Ogni giorno riceviamo cattive notizie. Soldati che muoiono, ostaggi che soffrono, attacchi terroristici. Abbiamo un governo che sta venendo meno alla sua responsabilità più importante: garantire la sicurezza. È un governo corrotto, pieno di persone che pensano solo a sé stesse.
La cosa patriottica, sionista, da fare è continuare a evidenziare i fallimenti di questo governo ed è quello che cerchiamo di fare ogni giorno. Se ad alcuni non piace, va bene lo stesso. Hanno diritto alla propria opinione.