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27 Settembre 2025Archetipi Maurizio Bettini rilegge per Einaudi il mito classico che anticipa il tema della crisi climatica
di Margherita Marvulli
Lo si ripete sempre più spesso davanti alle catastrofi naturali che popolano i notiziari: sono il drammatico segno dell’alterazione degli equilibri indotta dallo sfruttamento scriteriato del pianeta. Ma, per quanto sembri una cifra del nostro presente funestato dagli effetti del cambiamento climatico, la connessione tra calamità naturale e violazione umana è tutt’altro che inedita e ci riporta indietro di 2.500 anni, a un mito di cui Maurizio Bettini offre una lettura, tanto meditata quanto sentita, nel suo Arrogante umanità. Miti classici e riscaldamento globale (Einaudi).
Si tratta della storia di Fetonte, il giovane principe che, alla vigilia delle nozze, viene a sapere dalla madre Climene di essere figlio del Sole. Reclama allora dal padre la prova della propria discendenza, pretendendo di guidare il carro che trasporta l’astro fiammeggiante lungo l’arco del cielo. Ma, inesperto, non riesce a governare i cavalli, si avvicina troppo alla Terra, la infiamma e desertifica, prosciugando i mari, i fiumi, le fonti, e causando così tanti disastri da costringere Zeus a intervenire fulminandolo e facendolo precipitare nel fiume Eridano. Sintetizziamo così una delle possibili varianti del mito, che nella tradizione antica è in realtà un circuito aperto di possibilità narrative di valore letterario diseguale, ma tutte ugualmente significanti ai fini della riflessione condotta da Bettini attraverso la lente dell’antropologia.
Partiamo dalla citazione della vicenda contenuta nel Timeo di Platone (22 b-d): «Ci sono state (…) molte catastrofi che colpiscono gli uomini in molti modi». Dopo aver brevemente riassunto la vicenda, la smentisce: «Questo si racconta in forma mitica. La verità però è un’altra, e consiste nella deviazione dei corpi che girano in cielo intorno alla terra e (…) producono la combustione delle regioni terrestri per la grande abbondanza di fuoco». Davanti a un cataclisma, secondo gli antichi, possiamo scegliere due vie interpretative: quella che lo oggettiva in una verità scientifica e quella che lo tramuta in narrazione (noi moderni non siamo andati tanto più lontano di così, a pensarci bene). E non è mancato chi tra gli studiosi ha preso per buona la prima e ha individuato nella caduta di un meteorite l’origine della storia di Fetonte, cercando persino di identificare il luogo dello schianto. Ma, secondo Bettini, la seconda strada è più promettente: «I corpi infuocati che girano intorno alla terra (…) non ci dicono forse meno di un giovane sposo che invece di unirsi a una dea, brucia la sua vita per il desiderio di scoprire chi è veramente; di un ragazzo arrogante che si assume un compito troppo superiore alle sue forze; di una rovina cosmica causata dall’eccessiva ambizione da parte di un essere umano?».
È qui che il mito rivela la sua forza di rappresentazione culturale, ed è per questo che sentiamo pulsare l’analogia tra la folle impresa del figlio del Sole e la nostra attuale condizione di ciechi dissipatori di risorse ambientali. La figura di Fetonte ritorna oggi con tanta più «densità» nella misura in cui è facile per noi specchiarci in quel ragazzo incosciente e ambizioso che, pur essendo «mortale (…) ignaro brama cosa interdetta agli stessi dèi» (Ovidio, Metamorfosi, 2, 56-58).
Ma, a ben vedere, esiste una differenza sostanziale tra noi e gli antichi. Nonostante lo sdegno e la mobilitazione pubblica, allo scempio ambientale non sembra oggi seguire alcuna effettiva azione di rimedio: non c’è più Giove a ristabilire l’ordine.
Quando si è spezzato l’equilibrio tra colpa e punizione, tra oltraggio e riparazione? Quando abbiamo cominciato a ritenerci di diritto padroni della natura? Quando l’abbiamo sottratta a quella dimensione sacrale che le garantiva rispetto e protezione, ci dice Bettini, vale a dire con l’avvento della potentissima cosmologia antropocentrica costruita dal cristianesimo e fondata sull’uomo a immagine e somiglianza di Dio: una creatura che non è specie tra le specie, ma detiene il potere di soggiogare le altre e di nutrirsene (Genesi 27-29). Una visione, questa, che si incrina solo molto più tardi, con Charles Darwin e l’evoluzionismo, ma che governa ancora il nostro rapporto di consumo rispetto al pianeta.
Fetonte ci restituisce dunque un’inquietante immagine della nostra arroganza ottusa e autolesionista. Però, a ben guardare, possiamo trarre dalla sua vicenda esemplare anche un’indicazione positiva che risuona oggi prepotentemente in contesto: «Il fatto che gli antichi sentissero una presenza e un’autorità divina dietro terra, acque e alberi e ritenessero una colpa da parte degli uomini l’atto di violare la natura deve invitarci a trovare oggi un equivalente laico, ma ugualmente autorevole, di questa presenza, che da dietro l’ambiente possa imporci misura e rispetto», scrive Bettini. Ridateci Zeus e i suoi fulmini, insomma. Altrimenti, rischiamo davvero di precipitare, esattamente come lo sciagurato ragazzo. Per mano nostra.