Adesso è difficile individuarlo, ma c’è stato un giorno, recente, in cui Gaza ha smesso di essere il nome di una terra per diventare la definizione di un limite: la linea rossa che molti di noi hanno scelto come confine invalicabile. Da quel giorno, lottare al fianco di Gaza non è più stata una scelta politica, da legittimare o da porre in discussione.

È diventata una mossa mentale in cui una certa umanità ha preso distanza da un’altra, rivendicando una propria idea della Storia e richiedendo indietro il mondo a chi glielo stava scippando.

Non è contato più niente quel che eventualmente si pensava del conflitto tra Hamas e Israele, e neppure i pregiudizi che si potevano avere sugli ebrei o sul terrorismo: si è tutto spento come una candela in una casa che brucia, da quando Gaza è divenuta molto di più che una situazione geopolitica su cui prendere posizione: oggi è il nome di un certo modo di stare al mondo.

 

 

I primi a capirlo, mi è sembrato, sono stati i giovani, quelli tra i 15 e i 25 anni. Faceva strano vederli tirare fuori quelle bandiere palestinesi, d’improvviso usciti dal loro letargo politico. Voglio dire, erano ragazzi con cui era difficile parlare di Salvini, di Meloni, perfino di Trump. Non sembravano interessati. Cambiamento climatico e identità di genere, quelle erano le cose che li appassionavano. Poi, un giorno, te li ritrovi in piazza, quattro gatti, con quella bandiera di una terra lontana di cui, obiettivamente, non sapevano quasi nulla. Oggi che centinaia di migliaia di persone, in tutto il mondo, scendono in piazza con quella bandiera addosso, bisogna ammettere che quei ragazzi erano un quarto d’ora davanti a tutti: e adesso è molto, davvero molto importante capire in cosa hanno anticipato gli altri, e qual è il salto concettuale che hanno fatto con una velocità di cui nessun altro è stato capace.

2. C’è una falda, e noi ci abitiamo giusto sopra. Da una parte la terra emersa del Novecento, con i suoi valori, i suoi principi e la sua storia tragica. E dall’altra un continente, ancora spesso sommerso, che sta staccandosi dal Novecento, spinto della rivoluzione digitale, motivato dal disprezzo per gli orrori passati e diretto da un’intelligenza di tipo nuovo. Dove si consuma la frattura, la terra trema. Il Novecento non cede, e il nuovo continente continua a strappare. Non nutrirei grandi dubbi su come andrà a finire: il Novecento andrà alla deriva, continente quasi inabitato, destinato ad essere studiato nei libri e nei musei.

Ma in questi ultimi mesi siamo stati costretti a ricordare una verità scomoda, che forse avevamo rimosso: non c’è niente di più pericoloso di un animale morente. Entrato in agonia, il Novecento ha iniziato ad abbandonare la composta resistenza che aveva declinato con fermezza e, fiutata la fine, ha iniziato a menare colpi violenti, diventando estremamente aggressivo. Lo ha fatto resuscitando uno dei suoi tratti identitari più forti: credere che la guerra sia una soluzione, e la sofferenza dei civili un prezzo accettabile con cui finanziare lo scontro tra le élites. Sia l’aggressione russa all’Ucraina sia la guerra tra Hamas e Israele affondano le loro origini in pieno Novecento. Ancora vi si percepisce l’onda d’urto di fenomeni come l’Imperialismo e il Colonialismo che sono stati marchi di fabbrica del pensare Otto-Novecentesco. Vi si riconoscono facilmente conti rimasti aperti dalla Seconda Guerra Mondiale o dalla Guerra Fredda. E vi risulta spalancato il catalogo di prodotti con cui il Novecento ha venduto se stesso per lungo tempo: il culto dei confini, la centralità delle armi e degli eserciti, la religione del nazionalismo. È tutto un unico pacchetto: è il colpo di coda dell’animale morente. L’onda lunga di un disastro.

3. Di fronte a tutto ciò, all’inizio è stato difficile capire. Sembravano scosse sismiche, assestamenti del terreno. È stato il momento in cui aveva senso schierarsi, o tirare linee tra buoni e cattivi. Lo abbiamo fatto, ognuno secondo le proprie convinzioni. Poi è arrivata Gaza. Allora, d’istinto, si è sentito che c’era una sola linea, in realtà, ed era quella tracciata dalla falda su cui stiamo in bilico. Un mondo morente, da una parte, un nuovo continente, dall’altra. È sembrato urgente dire da che parte stavamo. E Gaza ci ha aiutato a farlo, perché è una sintesi rovente, chiarissima, di una spaccatura enorme – è dove un intero terremoto trema una volta sola, in un solo posto, in un solo momento.

4. Molti, nel prendere partito, si sono schierati dalla parte del continente che si sta staccando. Ancora una volta mi piace chiarire un concetto che mi sembra prezioso. Nulla ci garantisce che la civiltà che stiamo costruendo sarà, alla resa dei conti, migliore di quella che l’ha preceduta: ma possiamo dire con una certa sicurezza che è nata per smantellare gli schemi che hanno reso possibile il disastro del Novecento (due guerre mondiali, i campi di sterminio, la bomba atomica, la Guerra Fredda, l’epoca d’oro dei totalitarismi – voglio ricordare.) Della cosiddetta rivoluzione digitale si può pensare quello che si vuole ma sarebbe sciocco non ammettere che, consapevolmente o meno, ha fatto saltare i bunker strutturali e culturali su cui il Novecento aveva potuto edificare il proprio disastro: attraverso il digitale abbiamo scelto un mondo immensamente più liquido, più trasparente, in cui muri e confini perdono di consistenza; abbiamo accettato il rischio di liberare tutte le informazioni e le opinioni mettendole in circolo quasi senza cautele; abbiamo accelerato tutti i tempi generando di fatto un tavolo da gioco che si modifica in continuazione impedendo alle idee di sclerotizzarsi o di assurgere a miti; abbiamo reso estremamente difficile creare sacche protette dove far accadere la Storia al riparo da sguardi indiscreti; e abbiamo reso più impervio l’esercizio del dominio da parte di qualsiasi élite. Nessuna di queste mosse è esente dal rischio di drammatici effetti collaterali: ma se le abbiamo fatte è per una ragione che non dobbiamo mai perdere di vista: ci è sembrato urgente provare a vivere in modo diverso, per non morire nello stesso modo dei padri.

E ci era chiaro che il cuore della faccenda era proprio lì dove guerra, violenza e armi formavano un gorgo primitivo di cui volevamo cancellare ogni traccia. Se c’era un modo traumatico ma definitivo di ricordarci tutto questo, Gaza è quel modo. Ha ricordato a molti di noi che stiamo già vivendo in un mondo diverso – con le nostre menti, coi nostri gesti quotidiani – un mondo diverso dove Gaza non è possibile. Di più: non siamo disposti ad accettare che l’animale morente riprenda il centro della scacchiera, e ci riporti indietro, e tenga in ostaggio le nostre visioni. Al di là dell’istintiva e dolorosa pietas che Gaza ispira, l’insulto vero è sentirsi scippare – con violenza, arroganza e ferocia – di una cosa troppo preziosa: il futuro che vogliamo. Chi poteva capirlo meglio che dei ragazzini?

5. Poi in una protesta di piazza defluiscono motivazioni, e risentimenti, di ogni tipo, va da sé. Ma resto convinto che la spinta centrale dell’adesione alla causa di Gaza sia costituita da una precisa scelta di campo su questa storia di due civiltà a confronto, che in Gaza si scontrano col massimo dell’evidenza. Mi rendo d’altronde conto che non si tratta di un’adesione maggioritaria, per quanto sorprendentemente massiccia. Ma lì entra in gioco un altro fenomeno che mi ha sorpreso e che avevo intravisto solo in parte: la tremenda resistenza del Novecento. Se provo a spiegarla, mi viene in mente questo: c’è un enorme parte del tessuto economico, politico, intellettuale e sociale che sapeva giocare il gioco del Novecento ma non sa ancora giocare quello della nuova civiltà. Quindi si acquatta tra le pieghe dell’animale morente. Faccio un caso molto concreto: c’è molta gente che sa fare i soldi nell’habitat del Novecento e che non sa ancora come farli nella civiltà digitale

. Un esempio facile: i media. I grandi, tradizionali media del passato, intendo. I giornali cartacei, per dire, altri animali morenti (e lo dico con tristezza). La leggerezza con cui spesso soffiano sui venti di guerra tradisce l’istinto ad andarsi a rifugiare nei toni, e nelle idee, che a lungo hanno assicurato loro una qualche centralità, e dunque dei solidi profitti. Comprensibile, ma pericolosissimo. Non meno trasparente è la voluttà con cui intere élites intellettuali – per le quali la lucidità dovrebbe essere un dovere – vengono sedotte e ipnotizzate dall’animale morente e lo ricollocano al centro del gioco. Non sembra essere alla loro portata articolare visioni, o anche solo analisi, applicabili alla mappa del mondo nuovo: continuano ad articolare partite raffinate su una scacchiera che dovrebbero essere i primi a distruggere. Lo fanno con una voluttuosa propensione all’autodistruzione. È un fenomeno doloroso. Di fatto, gli scontri di civiltà si decidono in buona parte sulla capacità di narrazione, cioè sull’efficacia con cui alcuni riescono a convertire una nebulosa di fatti in una storia convincente, e dunque in realtà. Che così tanti narratori di talento lavorino in queste ore per portare ossigeno a una narrazione esausta come quella del Novecento – lei e la sua desolante epica guerriera – e cosa che inclina a reazioni durissime.

6. Se le cose stanno anche solo lontanamente come ho cercato di descrivere, è ovvio che l’Europa avrebbe, in questo momento storico, un ruolo fondamentale. È vero che il nostro continente è molto vecchio e quindi necessariamente piegato sotto il peso della nostalgia. Ma è anche vero che noi siamo il Novecento e che quindi nessuno lo conosce come noi: dove il Novecento è stato tragedia, e dove è stato meraviglia, noi c’eravamo, più di chiunque altro. Sappiamo esattamente dove sono le trappole, dove sono gli errori e dov’è il trucco. Ci basta un minimo di lucidità per capire come funziona l’animale morente e per questo nulla dovrebbe essere più lontano da noi che averne paura: una sola cosa dovremmo fare e avremmo la capacità di fare: finirlo.
Vorrei essere chiaro: non significa consegnarsi ciecamente alla civiltà digitale, significa usarla per sfilarsi via per sempre dai nostri errori. Ma non è quello che stiamo facendo. Sentire la parola riarmo filtrare dalle più rappresentative menti del continente è una vergogna, e a livello intellettuale un fenomeno incomprensibile. Essere costretti ad ascoltare i toni virili con cui si promette di difendere ogni singolo metro della nostra amata terra europea è inaccettabile. Piuttosto, ci sarebbe da dire con tutt’altra mitezza che difenderemo ogni singolo metro della civiltà che stiamo immaginando, e non lo faremo con le armi, ma con l’ottusa pazienza con cui l’animale cerca l’acqua e i fiumi il mare.

7. Ci sarebbe anche Trump, osserva qualcuno. E soprattutto l’America trumpiana. Giusto. Ma lì, sono sincero, non riesco a capire molto, mi mancano gli elementi. Credo che si dovrebbe vivere a lungo negli Stati Uniti, in questi anni, per capire. Da lontano colgo giusto l’urgenza di non scambiare il trumpismo – così come certi populismi europei – come l’ennesima zampata dell’animale morente. Non è così semplice. Lì dentro c’è un incrocio di correnti che è difficile da analizzare. Sicuramente c’è un’istintiva regressione a schemi di pensiero novecenteschi, tanto rudimentali quanto utili nei momenti di confusione. Il ritorno al culto dei muri e dei confini ne è un chiaro esempio. Ma questa regressione non si dà in purezza, come avrebbe fatto nel Novecento, e piuttosto viaggia costantemente diluita in sostanze che sembrano piuttosto arrivare da certa chimica tipica della nuova civiltà: il sospetto per le élites, l’individualismo di massa, perfino una certa inclinazione a interpretare la realtà con gli schemi formali del gioco, spostando su una superficie vagamente ludica il baricentro delle cose e diffidando della profondità come codice di lettura del reale. Certo, l’assemblaggio è duro da digerire per la sua tendenza a virare sul volgare, il protervo, l’adolescenziale e il semplicemente imbecille. Ma le rivoluzioni, è inevitabile, producono spettacolari contromovimenti di cui non sempre si può controllare il design. Quella francese del 1789, per dire – una rivoluzione che ha cambiato mezzo mondo – rimbalzò in una turgida acrobazia il cui kitsch è splendidamente riassunto nel quadro di Ingres dedicato a Napoleone imperatore. Vale la pena dargli un’occhiata.

 

 

Tra la presa della Bastiglia e quel quadro passarono 17 anni. Gli stessi che sono passati dalla presentazione del primo iPhone alla vittoria di Trump alle presidenziali del 2024. (Sì, mi rendo conto che il paragone delizierebbe il vecchio Donald. Mi scuso. Ma rendeva l’idea).

Se questo testo vi piace, diffondetelo. Se vi piace molto, traducetelo, prima che lo faccia l’IA, e fatelo girare. Grazie.

https://edicola.repubblica.it/