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«Quando abbiamo saputo dell’accordo per il cessate il fuoco, ci siamo guardati negli occhi. Possibile che sia finita? È finita, e siamo ancora vivi?». Se lo è chiesto giovedì Mira Al-Halabi, studentessa di ingegneria informatica di Gaza. I bombardamenti erano ancora in corso, e lei aspettava che terminassero per crederci. «Spero che la tregua entri in vigore il prima possibile perché siamo nervosi, abbiamo paura che ci siano attacchi dell’ultimo minuto, che rovinino la gioia di poter finalmente respirare e dormire tranquilli». Poi il fuoco è cessato davvero, e l’esercito israeliano ha cominciato a ritirarsi. Anche prima che lo facesse, i gazawi erano usciti a festeggiare.
«Qui tutti vogliono che la guerra finisca, anche se ci sono state persone prese di mira in Rashid Street mentre cercavano di tornare al nord (nelle prime ore dopo l’accordo, ndr) », racconta ad Avvenire la giornalista Hanan Al-Rifi che un mese fa ci aveva descritto i suoi tentativi vani di lasciare Gaza City, scontrandosi con prezzi esorbitanti e l’impossibilità di trovare un pezzo di terra libero in affitto. Ieri mattina i carri armati erano ancora vicini ai luoghi del centro città, « ma questo non ha impedito alle persone di uscire per festeggiare perché sono tutti stanchi di uccisioni, distruzione ed evacuazioni».
Ritroviamo anche Ikhlas Abu Riash, la giovane madre rimasta sola con il suo bambino Samir, che abbiamo seguito per mesi nei rischiosi e sfiancanti viaggi di sfollamento. « La tregua è entrata in vigore. Non abbiamo dormito nemmeno la notte passata, aspettando l’approvazione dell’accordo da parte del governo israeliano. Ora attendiamo il ritiro dell’esercito per poter tornare al nord. La nostra gioia sarà completa solo quando torneremo nella nostra città natale, Jabalia. Nelle prime ore chiunque ci abbia provato è stato preso di mira». Confida di essere confusa, di non riuscire a decidere se partire subito oppure aspettare di vedere se suo marito, detenuto da mesi, sarà tra i palestinesi rilasciati nell’ambito della prima fase dell’accordo. « Di solito i prigionieri vengono liberati al sud. Temo per la sua salute, so che è peggiorata. Voglio stargli accanto» scrive su Whatsapp. «Quando l’elenco
sarà pubblicato e quando troverò scritto il suo nome, andrò subito a comprargli dei vestiti. Non ne ha più, neanche le scarpe. Biancheria, camicie e pantaloni, prodotti per lavarsi e medicine, preparerò tutto ciò di cui avrà bisogno » . Anche la famiglia Filfil è del nord: « Al momento non ci è permesso tornare a Beit Lahia perché è ancora sotto il controllo dell’esercito di occupazione e nessuno è autorizzato ad avvicinarsi » ci scrive in un messaggio la figlia. « La popolazione attende e osserva con cautela», è l’impressione del professor Maher Jouda, che insegnava all’università Al-Quds a Gaza. « La prima fase del piano di Trump sul rilascio degli ostaggi è un passo importante, ma rimane un punto rilevante: il disarmo di Hamas. La questione principale sarà se ciò comporterà il congelamento delle armi, la loro consegna all’Autorità nazionale palestinese o la loro distruzione. È qui che potrebbero sorgere complicazioni. Poi una parte dell’opinione pubblica non si fida di Trump, di Israele né di mediatori come Qatar e Turchia. Si preferirebbe che l’Egitto fosse il principale sponsor dell’accordo».
Ancora una volta raccogliamo le parole della giovane professoressa di inglese Reem Hamad, che in diverse occasioni, in questi due anni, ha raccontato ad Avvenire la quotidianità dura della Striscia, le speranze e le delusioni. « È fatta. È una grande novità. C’è tristezza certo, abbiamo perduto molto, ma è un’altra fase, avremo una nuova vita». Giovedì al tramonto, al termine della giornata segnata dalla notizia dell’accordo, aveva commen-tato: « L’atmosfera questa sera è diversa, più rilassata. Sono stata in un bar a lavorare online. C’era un profondo senso di silenzio. Siamo felici, ma abbiamo qualcosa di rotto dentro». Parla dei tanti che pensano al ritorno nelle proprie terre e case. « I miei familiari sembrano persi. Non abbiamo più nessun posto dove tornare. Beit Hanoun, da dove veniamo, è stata distrutta e non sappiamo se l’esercito la lascerà o meno. E a Gaza City anche il luogo in cui alloggiavamo è stato demolito. Non possediamo più nulla e non abbiamo idea di dove andare. Troppi pensieri ci stanno consumando, come succede a molte famiglie». Poco sonno per lei, tra giovedì e ieri, per un’altra nottata trascorsa sveglia, a parlare online con i suoi amici. « Loro ancora non ci possono credere, dicono che la guerra tornerà e proseguirà anche peggio. E che con Israele tutto è possibile. Vogliono lasciare la Striscia non appena potranno, verso altri Paesi, verso l’Egitto. La maggior parte dei gazawi ci vuole andare, almeno per un po’. Io però sento che ora la situazione è completamente cambiata. Le decisioni non sono più solo nelle mani di Israele, adesso spettano a diverse potenze. Nessuno si fida, è così che la pensano in molti. Io però questa volta ci credo. Questa volta è finita davvero».