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Patrimonio solido, erogazioni tiepide. Il documento programmatico 2026 certifica la fine dell’emergenza, ma non indica una visione
Di Pierluigi Piccini
Il Documento programmatico previsionale 2026 della Fondazione Monte dei Paschi segna la fine di un lungo periodo di transizione. Il patrimonio supera i 582 milioni di euro, le erogazioni previste raggiungono i 10 milioni contro i 4 del 2017. Numeri che raccontano una stabilità ritrovata, ma non ancora una direzione. La presidenza Rossi chiude con conti in ordine e bilanci regolari. Resta però una domanda aperta: a cosa serve oggi una fondazione che si limita a non sbagliare?
Il vincolo dell’1,2% del patrimonio come soglia minima per le erogazioni è rivendicato come garanzia di sostenibilità. In pratica, la Fondazione si mantiene attorno al 2% — 10 milioni su 582. La media nazionale delle fondazioni bancarie varia tra il 2,5% e il 3%. La Compagnia di San Paolo arriva al 3,5%, la CRT supera il 3%. Siena sceglie il limite inferiore. Una scelta difensiva, comprensibile ma costosa: riduce la capacità di incidere. Le fondazioni bancarie non nascono per conservare ricchezza, ma per generare valore pubblico. E il valore pubblico si misura in impatti, non in percentuali.
Quasi metà del budget 2026 — oltre quattro milioni — sarà destinato a “Ricerca e sviluppo locale”, in larga parte verso Toscana Life Sciences e Biotecnopolo. Entrambe realtà in cui la Fondazione è già presente come investitore. Il rischio è evidente: sostenere la ricerca o sostenere se stessa? Le domande sulle ricadute restano inevase: quanti posti di lavoro, quante startup, quanti brevetti, quali benefici concreti per Siena? La Fondazione non fornisce dati pubblici. E la mancanza di dati, in un’istituzione di natura pubblica, non è mai neutra.
Nel documento non compaiono piani per l’housing studentesco, mentre l’Università continua a perdere iscritti; né una strategia per il centro storico, né un disegno organico per l’innovazione sociale. Ci sono invece i “bandi”: strumenti utili, ma spesso rifugio di una governance che preferisce distribuire piuttosto che progettare. Un centinaio di micro-progetti garantiscono visibilità, ma raramente producono trasformazioni durature. Le grandi fondazioni internazionali non si limitano a finanziare: progettano, rischiano, misurano i risultati, li rendono pubblici. La Fondazione MPS continua invece a operare per frammenti, senza indicatori di impatto né strategie verificabili.
Il Comitato di Indirizzo dovrebbe rappresentare il territorio, ma l’attuale sistema di nomine — spartito tra enti pubblici, università e categorie economiche — garantisce più equilibrio politico che competenza. La conseguenza è una governance prudente, attenta a non scontentare nessuno, ma priva di visione. Senza azionisti né elettori, l’unico controllo possibile è la trasparenza. Quanti cittadini sanno come vengono spesi i 10 milioni di euro annui? Quanti possono leggere facilmente dati, indicatori, risultati?
A Siena la Fondazione MPS resta l’unico grande erogatore privato. Non deve competere, non deve misurarsi, non deve giustificarsi. La mancanza di competizione genera inerzia. A Torino, la presenza simultanea di CRT, San Paolo e Agnelli produce invece un sistema più vivace, dove confronto e specializzazione spingono l’innovazione.
Manca una teoria del cambiamento: un’idea esplicita di quale Siena la Fondazione intenda contribuire a costruire. Manca la valutazione dell’impatto sociale dei progetti. Manca il coraggio progettuale. Nessuno oggi saprebbe dire quale grande impresa collettiva porti la firma della Fondazione MPS. Eppure, senza progetti riconoscibili, una fondazione rischia di ridursi a un ufficio di erogazioni.
La presidenza Rossi lascia una Fondazione solida, ma poco dinamica. La stabilità è stata raggiunta; ora serve visione. Il nuovo vertice dovrà scegliere tra prudenza e trasformazione, tra bandi diffusi e progetti strategici, tra autoreferenzialità e apertura. Siena non ha più bisogno di una fondazione che sopravvive: ha bisogno di una fondazione che guida.
La prudenza ha salvato il patrimonio. Ma il patrimonio, da solo, non salva una città.




