C’è una voglia di cambiamento nel paese che attende di essere interpretata». A 46 anni Dario Franceschini, allora numero due della Margherita di Rutelli, si era mosso per rompere il tabù e ipotizzare in pubblico una candidatura a premier del centrosinistra alternativa a quella di Romano Prodi. «Fra due anni saranno chiamati a votare elettori che all’epoca del primo scontro Prodi-Berlusconi avevano otto anni. Serve una generazione politica nuova», disse al Corriere della Sera. Era l’8 settembre 2004.
Per qualche ora Franceschini è sembrato tornare a muoversi, segnalando che Elly Schlein può continuare a fare la segretaria del Pd, ma per la candidatura a premier è necessario pensare ad altro. Ventuno anni dopo, quasi una generazione, non cambia la testata, perfino il retroscenista è lo stesso. Ma stavolta Franceschini ha duramente smentito.
Peccato. Perché leggendo si respirava un’aria alla Gozzano, l’amica di Nonna Speranza, «i fiori in cornice, il caminetto un po’ tetro, le scatole senza confetti, i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro, il cùcu dell’ore che canta…». Nel 2004 Prodi era appena tornato dall’Europa, senza ruoli o incarichi, era il parafulmine di ogni tensione: ogni motivo per attaccarlo era buono. Troppo appiattito su Rifondazione, troppo a sinistra, troppo duro con il premier in carica.
Quando a Montecatini disse che Berlusconi usava «mercenari» per la sua campagna elettorale, nei palazzi romani i malumori dei notabili Ds tracimarono nei giornali: «L’eccessiva radicalizzazione ci danneggia. Il centrosinistra deve tenere un tono di moderazione», commentò D’Alema.
La coalizione appassiva in un labirinto di sigle: tra la Fed, la federazione di Ds e Margherita (il futuro Pd), e la Gad, la Grande alleanza democratica, allargata a Rifondazione. Prodi, dicevano, non è in grado di parlare al paese, e il candidato di ricambio era già pronto. Anni dopo, Paolo Gentiloni, che era il consigliere più stretto di Rutelli, ammise: «C’era la guida rossa per accogliere Veltroni, sindaco di Roma. Ma lui non è mai sceso».
Ricorda qualcosa, o qualcuno? Oggi come venti anni fa la coalizione alternativa alla destra sembra un cartello elettorale di partiti, leader, capicorrente, capi sindacali, ognuno per sé. Tutti impegnati, oggi come allora, nella loro specialità, il logoramento del leader di turno, sport al quale Franceschini ha detto di non voler giocare. Ieri Prodi, oggi Schlein. O, se si preferisce, ieri Veltroni, oggi Salis o Manfredi.
Nel campo largo, o come si chiama, è il momento della ricerca di quello che Alessandra Sardoni ha definito «il fantasma del leader» (Marsilio, 2009): nel centrosinistra «la forma amministratore delegato è il massimo della leadership tollerabile, presuppone la possibilità di negoziare le deleghe e un consiglio di amministrazione. L’obiettivo non è far vincere il migliore o il più forte, ma restare membri del consiglio di amministrazione, qualsiasi cosa accada». Compresa la sconfitta, ovviamente. Un modello che attira nostalgie struggenti, anche tra chi venti anni fa non c’era.
Giuseppe Conte, per esempio: chi meglio di lui nel ruolo dell’amministratore, scelto una volta dagli azionisti gialloverdi, poi dagli azionisti giallorossi, oggi lui stesso azionista, deciso a far valere il suo pacchetto? A destra si nutrono di questo groviglio, fanno valere il modello opposto, il capotreno o la capatrena che si auto-legittima con il suo potere di leadership, è la regola che tiene insieme la coalizione: ieri Berlusconi, oggi Meloni, in mezzo Salvini.
Per questo Meloni pensa a una legge con l’indicazione del candidato premier sulla scheda elettorale. Una mossa che impone alla coalizione alternativa di uscire dall’impasse. Una differenza con venti anni fa c’è: Prodi non aveva un partito, oggi invece Schlein è la segretaria del Pd, si può far coincidere la leadership politica (la guida del partito più votato della coalizione) con la candidatura a premier, come accade in tutti i paesi europei. Ma si può fare con un’operazione di allargamento e di mobilitazione di energie e di intelligenze, lontano dagli accordi di vertice, dai caminetti e dall’autoreferenzialità, dalle foto di gruppo e dai cerchi magici, in cui finiscono impaludate anche le leadership migliori.
Servono luoghi, sedi di confronto in cui a chi partecipa non viene chiesto di essere più di sinistra o più moderato, più radicale o più riformista, rivolgersi a tutti gli elettori e non solo ai dirigenti, o ai sondaggisti e ai comunicatori di professione, come ha fatto Zohran Mamdani a New York, dimostrando che il riformismo non è mai la sbiadita copia dell’esistente, «gli acquarelli un po’ scialbi» di Gozzano.
Il primo banco di prova sono le elezioni regionali, poi il referendum sulla giustizia: servono comitati unitari di partiti e società civile, in una battaglia difficilissima che la destra ha già scelto come il suo terreno per allargare il consenso. E finalmente un progetto per il paese, consegnando agli «scrigni fatti di valve» le manovre dei salotti di Nonna Speranza.







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