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15 Novembre 2025
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15 Novembre 2025Un corpaccione sconfinato e definibile solo in negativo: eterno portatore di disvalore morale e pure esteticamente impresentabile, nel suo grigio squallore. E’ dovunque ma da tutti disprezzato. A meno che non sia “impoverito”
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La letteratura e il cinema non hanno mai amato il ceto medio. L’Agenzia delle entrate sì, e anche molto. Quel corpaccione informe e dai confini indeterminati, il ceto medio, più mentalità e stile di vita che classe sociale in senso stretto, figlio della società del benessere e dei consumi, deve essere tosato e messo nel mirino. E la sua stessa esistenza viene deprecata e disprezzata dagli orfani della prematuramente scomparsa classe operaia neanche fosse il ricettacolo della volgarità maleducata, meschina, gretta, attaccata al soldo, deturpata dall’avidità che è il contrassegno del parvenu (vuoi mettere con l’apologia pasoliniana del popolo di una volta, incontaminato e incorrotto? E pure l’aristocrazia ci ha abbandonato). Ossessionato dal feticismo del denaro e delle merci, evasore fiscale per genetica, vocazione e vizio antropologico. La destra meno liberale trascura il ceto medio, salvo ricordarsene in prossimità delle elezioni. La sinistra rivaluta il ceto medio, ma solo se è “ceto medio impoverito”, insomma un ceto medio in via di inesorabile proletarizzazione, come ai vecchi tempi. Solo i poveri meritano considerazione, ma se il tuo reddito medio ammonta a 2500 euro netti al mese diventi immediatamente un ricco da esporre al pubblico ludibrio. Il ceto medio, se non impoverisce, è sempre portatore di disvalori. C’è una lunga tradizione culturale, un capitolo importante persino nella dimensione estetica, che certifica questa ostilità.
La classe operaia ha il suo Ken Loach abilitato a officiarne il rito funebre. Gli impiegati del ceto medio hanno invece in Fantozzi la loro stella opaca e spenta, genialmente derisa e sbertucciata. Era così come il povero impiegato di Gogol che, nella Russia polarizzata tra un latifondismo feroce e arrogante e la miseria contadina relegata nella servitù, da rappresentante del ceto medio basso e grigio perdeva il naso e per un sovrappiù di disperazione esistenziale veniva derubato dal suo cappotto. Il ceto medio impiegatizio diventa da sempre lo zimbello sociale, scorticatoio da letterati e cineasti per la sua servile timidezza, per lo squallido grigiore del suo stile di vita e la sua disponibilità a subire soprusi e angherie. L’impiegato ha un solo pregio per i suoi detrattori e maestri di stile ed eleganza: non è un evasore, ma solo per perché le tasse sono nella trattenuta. Alla fine degli anni Venti americani, ruggenti e disordinati e dissipati c’era sì il Grande Gatsby che con l’ostentazione di una ricchezza dalle oscure origini malavitose voleva conquistare il suo amore per Daisy interdetto dal rango sociale e dalle etichette di classe. Ma c’era anche lo scrittore Sinclair Lewis che aveva letterariamente creato Babbitt, personificazione della irrimediabile grettezza piccolo-borghese, dell’ottusità conformista con quell’“abito grigio ben tagliato”, bersaglio delle invettive del ceto dei colti, che ha fatto di Babbitt l’emblema dei disvalori in un mondo troppo confuso dove le distinzioni polarizzanti tra il vertice dei signori e la base dei subalterni assicuravano almeno stabilità e ancoraggio nelle sane tradizioni.
Il ceto medio è categoria così onnicomprensiva e sconfinata da comprendere in sé figure sociali che hanno ben poco in comune se non la posizione mediana nel dualismo antagonistico del mondo moderno segnato dall’industria e dal capitalismo. Una classe sociale “ubiquitaria”, come l’aveva definita con encomiabile sforzo classificatorio Paolo Sylos Labini, che comprende in sé tipologie opposte, da Monsù Travet al piccolo imprenditore, dal commerciante al libero professionista. Secondo la lezione di Benedetto Croce il ceto medio, refrattario a una classificazione puramente economica o sociologica, “nella sua concretezza e realtà corre sempre nel mezzo; e ceto medio è quello che più spiccatamente esercita questo continuo ufficio di mediatore tra gli estremi”: crocianamente una categoria dello Spirito. Una lezione, peraltro, che appare oggi insufficiente a spiegare i venti di rivolta che agitano in modo estremistico un ceto medio frustrato e deluso (“impoverito”, secondo la vulgata neo-pauperistica e tardoanticapitalistica della sinistra, ma che chissà per quale insondabile ragione dirotta quasi sempre la sua rabbia verso un voto di destra, in Europa e in America). In più non c’è nemmeno la consolazione di un nuovo Purgatorio per il mondo che crocianamente “corre nel mezzo”. Invenzione teologica geniale, il Purgatorio, che il cristianesimo romano, come ci ha raccontato lo storico Jacques Le Goff, attorno al 1300, non potendo più racchiudere la variegata molteplicità sociale del nuovo mondo di neo-borghesi e neo-mercanti
nel dualismo Inferno-Paradiso, escogitò una stazione intermedia. Appunto il Purgatorio: un nuovo un rifugio nell’aldilà per le sempre più numerose anime che non portavano un così grosso fardello di peccati da condannarle al castigo eterno, e tuttavia non erano nemmeno così pure da meritare l’eterna beatitudine senza un preventivo lavacro purificatorio (e insomma, “purgativo”) non già in una terra di mezzo, ma in un cielo di mezzo, quello sì. Ora, dopo qualche secolo, è invece possibile la mitologia proletaria in un film culto come “La classe operaia va in Paradiso” di Elio Petri del 1971, in piena atmosfera di operaismi e autunni caldi. Ma sarebbe inconcepibile pensare a un titolo come “Il ceto medio va in Purgatorio”. Con la saga del povero Fantozzi c’è piuttosto l’ultimo girone dell’Inferno ad attendere lo sventurato cetomedista.
Grava sul ceto medio il peso insostenibile di un doppio stigma: quello della riprovazione sociale e quello dell’impresentabiltà estetica. “Chi son? Sono un poeta. Che cosa faccio? Scrivo. E come vivo? Vivo / In povertà mia lieta scialo da gran signore rime ed inni d’amore”. Quando nella “Bohéme” di Giacomo Puccini Rodolfo, dopo averle sfiorato “la gelida manina”, presenta alla fragile Mimì il suo curriculum vitae, e le sue stesse credenziali morali, ripropone l’antitesi che anima da secoli oramai l’ostilità del mondo dell’arte (“Vissi d’arte”) nei confronti di quello meschino e spregevole della nuova piccola borghesia. Da una parte il febbrile mondo bohémien, il cenacolo dei poeti poveri in canna, ma puri di cuore, generosi, idealisti, nobili d’animo. Dall’altra la deplorevole piccola borghesia (“Le Petits Bourgeois” è infatti il titolo di un romanzo di Balzac, un grande sociologo sia pur senza titoli accademici oltre ad essere un grande scrittore, che nei suoi libri disegna il grande affresco sociale della nuova Parigi ottocentesca): il nuovo ceto che si sporca con la “materia bassa e immonda dell’economia”, dove l’economia, il denaro non ereditato per successione signorile bensì guadagnato sudando sui libri contabili, rappresenta qualcosa di spregevole e di disonorevole, macchiato dai miasmi del commercio, degli affari. Dei soldi, da sempre “sterco del demonio”, il “Dio Mammona”, e quindi da tassare senza pietà con patrimoniali punitive. Da una parte l’Artista raffinato e sensibile, dall’altra il “filisteo”, altra frequentatissima etichetta denigratoria, imprigionato nelle sue moralmente poco commendevoli attività. E questo stesso dualismo si rivela nel “Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, dove la simpatia del lettore va a don Fabrizio principe di Salina, l’aristocratico che, con la morte nel cuore ma a testa alta, vede malinconicamente svanire il suo mondo ormai conquistato dai modi rozzi e grossolani di Calogero Sedara, l’uomo antropologicamente “nuovo” inzaccherato dalla materia ignobile del denaro attraverso il quale, grazie al matrimonio della figlia Angelica con il nipote Tancredi della schiatta del principe, compra quell’attestato di nobiltà capace di donargli una rispettabilità immeritata.
“Dobbiamo gridare contro i guanti a buon mercato, contro le seggiole a braccioli, contro le stufe economiche, contro i tessuti finti, contro il finto lusso”. Sembra l’invettiva di uno dei tanti apostoli del pauperismo anticonsumista che tuonavano dai pulpiti nell’Italia degli anni Sessanta appena uscita dall’Italia post-bellica e pre-industriale. E invece erano, più o meno un secolo prima, parole del grande e geniale Gustave Flaubert che detestava tutto ciò che è “a buon mercato”, base e condizione di ogni propensione al consumo del “ceto medio”. Che infatti, dall’Ottocento sino ai nostri giorni, si lascia tentare con facilità dall’ossessione dell’acquisto. Chi consuma è il ceto medio. Il ceto medio non lotta, consuma. Non va in piazza, lavora. Non si mobilita, acquista. Non ama leggere e impegnarsi, piuttosto ama fare shopping. Poi, per recuperare in rispettabilità estetica e mostrarsi meno incolto e grossolano e degno di entrare in società, il ceto medio capisce che è il caso di accantonare consumi vistosi ed esibizioni pacchiane e si rassegna a mettersi in coda nelle interminabili file per entrare nei musei dove si addensa la folla curiosa di Van Gogh e persino dell’avanguardia, va al cinema per vedere i film d’autore, si sottopone addirittura ai riti della cucina alternativa, invade (“l’orrore, l’orrore”) le oasi vacanziere in cui si rifugiava l’elegante ceto dei colti, come in “Ferie d’agosto” di Paolo Virzì, possibilmente, ma solo possibilmente lontano dal chiasso del turismo di massa (e dunque le Maldive, le Seychelles, roba da ricchi, ma con discrezione: anche se poi il popolo del ceto medio arriverà a violarne la pretesa esclusività). Ma resta per sempre lo stigma, il marchio, il disprezzo. Goffredo Parise, che pure detestava il conformismo snobistico, non era un sacerdote dell’impegno e anzi detestava non poco i sacerdoti dell’impegno
Ladestramenoliberalelotrascura, salvo ricordarsene in prossimità delle elezioni. La sinistra lo rivaluta, ma solo se in via di proletarizzazione
E’possibile la mitologia proletaria de “La classe operaia va in Paradiso”, ma sarebbe inconcepibile un titolo come “Il ceto medio va in Purgatorio” Il denaro non ereditato per successione signorile, bensì guadagnato sudando sui libri contabili, è qualcosa di spregevole e disonorevole Il ceto medio non lotta, consuma.
Non va in piazza, lavora. Non si mobilita, acquista. Non ama leggere e impegnarsi, ama fare shopping (Pasolini in primis) e tuttavia aveva scritto un libro come “Il padrone”, ambientato in un’Italia industriale dura ma proiettata nel futuro, dedicò una severa requisitoria ai piccolo-borghesi, orripilato dalle loro “conversazioni” in cui non c’era altro che “il denaro, il cibo, i ristoranti dove si mangia bene, il mare in agosto, la macchina, l’autostrada, l’inflazione”. Ma la letteratura industriale poteva vantare un romanzo come “Memoriale” di Paolo Volponi. La piccola borghesia, il ceto medio, la terra di mezzo, il corpaccione informe di milioni di italiani che scoprono il benessere e non vogliono perderlo per nessuna ragione al mondo (e figurarsi se può restare indifferente di fronte allo spettro delle patrimoniali), tutti quelli che sono come noi, né ricchi né poveri, invece non hanno grandezza letteraria, così materialisti e consumisti, così volgari quando non possono vantare origini lontane, così lontane da perdersi nel tempo, e allora non sono più piccola borghesia ma Grande Borghesia da ammirare per la sua eleganza così raffinata da diventare quasi aristocratica e monarchica.
Negli stessi anni escono due film sociologicamente all’opposto come “Rocco e i suoi fratelli” di Luchino Visconti e “Il sorpasso” di Dino Risi. Quanta forza nella famiglia di Rocco, trapiantata a forza nel cammino della speranza dal Sud senza riscatto fin nelle nebbie della metropoli del Nord per diventare l’ossatura della nuova classe operaia, quanta tragedia, quanto dolore, quanta violenza. Eppure non si può che restare ammirati dall’umanità che popola le periferie, tra delinquenza, palestre sordide e addirittura l’orrore di uno stupro di gruppo (altro che patriarcato). E sul fronte opposto, in quel capolavoro che è “Il sorpasso”, il nuovo prototipo di italiano gettato in un manciata di anni nel calderone ribollente del benessere, del consumo, della modernità, delle strade, delle stazioni di benzina Agip sull’Aurelia, delle automobili modello sprint e decappottabili, dei clacson pigiati senza ritegno, delle spiagge affollate con i juke box alle spalle degli ombrelloni, oggi inghiottite dalle maree di Castiglioncello, della bellezza delle nuove adolescenti come Catherine Spaak, dell’indifferenza beffarda per le atmosfere rarefatte e alienate dei film di Antonioni (che pure, gigioneggia Gassman per farsi bello con l’ingenuo Trintignant, non si negava transiti sulla “fettuccia di Terracina”, il lungo rettilineo al confine tra il Lazio e la Campania simbolo della nuova mobilità automobilistica piccolo borghese). L’esuberante cialtrone e spavaldo parla di noi, suscita risate e simpatia, ma non potrà mai essere oggetto di ammirazione, un modello etico ed estetico, il soggetto di una grande epopea.
Passati i decenni, il ceto medio tracima, spezza tutti confini, “ubiquitario” secondo la lezione di Sylos Labini, e oramai onnipresente, invadente, inclassificabile. Così inclassificabile da rendere la sinistra incapace di capire il terremoto che ne ha scosso la base sociale. E infatti siamo tornati, finita la stagione dell’anatomia marxista della società capitalistica, alla distinzione basica tra “ricchi” e “poveri”, come la Caritas, ma senza nemmeno impegnarsi nelle mense e nei luoghi di solidarietà effettiva con i poveri che la Caritas assicura, con un senso di missione davvero ammirevole. Battuto dalla letteratura e dal cinema il ceto medio, diventato sociologicamente enorme e sfuggente al tempo stesso, si prende la sua rivincita, impoverito forse, ma elettoralmente sempre più potente. Non sarà il ritocco di un’aliquota Irpef a fermarne la marcia.
Ladestramenoliberalelotrascura, salvo ricordarsene in prossimità delle elezioni. La sinistra lo rivaluta, ma solo se in via di proletarizzazione
E’possibile la mitologia proletaria de “La classe operaia va in Paradiso”, ma sarebbe inconcepibile un titolo come “Il ceto medio va in Purgatorio” Il denaro non ereditato per successione signorile, bensì guadagnato sudando sui libri contabili, è qualcosa di spregevole e disonorevole Il ceto medio non lotta, consuma.
Non va in piazza, lavora. Non si mobilita, acquista. Non ama leggere e impegnarsi, ama fare shopping





