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18 Novembre 2025Ragionare con Carlo Nepi. Per una visione esigente e responsabile del Santa Maria della Scala
Ho letto con grande interesse l’intervento di Carlo Nepi dedicato alla mostra “Vecchietta al Santa Maria della Scala – Una nuova visione per il complesso museale”. Il suo testo merita attenzione non solo per i rilievi puntuali, ma per l’impianto culturale che li sostiene. Nepi appartiene a quella tradizione alta dell’architettura museale italiana – da Scarpa a Gardella, da Albini a Canali – in cui l’allestimento non è un gesto decorativo, ma un esercizio di lettura fenomenologica degli spazi. È una tradizione che non cerca di imporsi, ma di rivelare ciò che già esiste, trovando nel silenzio, nella luce e nella misura gli strumenti più efficaci per dare senso al patrimonio.
L’analisi di Nepi evidenzia un nodo metodologico prima ancora che estetico. Intervenire nel Santa Maria della Scala non significa “aggiungere qualcosa”, ma comprendere i vincoli e le potenzialità di un organismo lacerato dai secoli e insieme straordinariamente unitario. In questo senso, molte delle criticità da lui indicate – dalla rampa d’accesso alla Sagrestia Vecchia alle vetrine cremisi, dal tavolo ottagonale alle superfici in gres porcellanato, fino alla pannellatura del Pellegrinaio – non sono tanto problemi di stile quanto segnali di un processo progettuale che non sembra fondato su un principio guida forte. L’allestimento, per funzionare, deve essere un’interpretazione disciplinata del luogo: occorre saper ascoltare, sottrarre, rendere leggibile. Qui, purtroppo, prevale l’impressione di una sommatoria di scelte, talvolta anche benintenzionate, ma prive di una chiara gerarchia narrativa e museografica.
A questo si aggiunge un ulteriore elemento, tutt’altro che marginale: l’allestimento attuale sostituisce di fatto la mostra annunciata e non realizzata. È una sostituzione che pesa, perché priva l’intervento di quel fondamento curatoriale – tema, percorso, racconto, visione – che avrebbe dovuto orientarne le scelte. Una mostra su Vecchietta richiedeva un impianto critico riconoscibile, una struttura narrativa, una dichiarazione di intenti. Nulla di tutto ciò appare evidente. Mancando la mostra, l’allestimento si trova a reggere un peso che non può sostenere: non è pensato per raccontare, ma solo per collocare, e per questo risulta fragile, intermittente, privo di una direzione chiara.
Il nodo emerge anche nella Santissima Annunziata. Rendere visibile il retro del Cristo Redentore di Vecchietta è intenzione lodevole e culturalmente opportuna. Ma l’esecuzione – come giustamente osserva Nepi – introduce un elemento che interferisce con la contemplazione, imponendo un linguaggio tecnico che stride con la sobrietà dello spazio e con la natura devota dell’opera. Qui il problema non è l’idea, ma la sua qualità: manca quella finezza che dovrebbe guidare qualsiasi intervento in un luogo tanto carico di storia e di equilibrio.
Il testo di Nepi ha il merito di sottrarci alla superficie della discussione, riportando la questione al livello che conta: la responsabilità verso un patrimonio fragile, stratificato, complesso. Il Santa Maria della Scala è uno dei luoghi più preziosi dell’identità senese. Non è un contenitore neutro: è un testo architettonico, artistico e culturale che richiede un metodo, non una serie di soluzioni ornamentali. Le critiche di Nepi – per quanto severe – non sono distruttive; sono un invito a recuperare il livello di rigore che Siena ha dimostrato di saper esprimere in altre stagioni, quando la progettazione culturale sapeva unire competenza, misura e visione.
Conclusione
Il contributo di Carlo Nepi è prezioso perché ricorda che interventi di questo tipo non possono nascere dall’improvvisazione, né dalla volontà di lasciare un segno visibile ad ogni costo. Occorre un progetto culturale forte, una museografia competente e la capacità di sottrarre più che aggiungere. La discussione non deve essere difensiva, ma costruttiva: si tratta di restituire al Santa Maria della Scala una coerenza e una leggibilità che oggi appaiono indebolite. È un compito che riguarda non solo architetti e curatori, ma la città nel suo insieme, perché in luoghi come questo si misura la qualità della nostra idea di cultura. Dialogare apertamente, come ci invita a fare Nepi, è il primo passo per ritrovare quella responsabilità condivisa che ha sempre reso Siena un luogo capace di coniugare memoria e innovazione senza sacrificarne l’armonia.
Pierluigi Piccini





