Una volta gli estremi erano vicinissimi, oggi è una metropoli nella quale conta solo la lettera che indica il migliaio di euro
C’era una volta la Milano fisarmonica: estremi vicinissimi – centro, periferie – che con un colpo di mano o un giro d’isolato diventano lontanissimi; alti e bassi ravvicinati ma – spesso – destinati a non incontrarsi mai. San Siro, per esempio: la casbah e le ville più ricche della città, tutto il mondo e il suo contrario in un chilometro, sono il teatro perfetto per un noir.
Perché Milano in fondo è piccola, può contenere tante città diverse in una sola, una mescolanza di contraddizioni e destini che, oggi, rischia di sparire mentre la forbice sociale si allarga. La metropoli è sempre più il Regno dei Kappa, dallo slang inglese che descrive le migliaia di dollari.
I Kappa che muove la finanza o il piccolo imprenditore, i Kappa su cui trattare l’aumento negli headquarters che tengono il passo dell’economia internazionale, i Kappa al metroquadro di cui discettano agenti immobiliari sempre più giovani e voraci, i Kappa che ballano per uno degli infiniti eventi, i Kappa che mancano e che sono il sogno di un pezzo di città ogni giorno più esclusa.
E se le statistiche descrivono una diminuzione generale dei reati, c’è un solo fenomeno in aumento: scippi, aggressioni, rapine che crescono soprattutto tra i giovani. Il coltello è il nuovo codice della violenza. A portata di mano in ogni cucina, si maneggia facilmente, si nasconde e si usa senza scrupoli anche quando sul piatto non ci sono montagne di Kappa ma solo quaranta euro, uno smartphone o un giubbotto di marca; poi si ripone, prima di rientrare a casa, col primo treno locale disponibile o in quelle di buona famiglia che abbracciano il centro-fortino.
L’amico investigatore è colpito da un salto di categoria ormai sdoganato: «Un conto è rapinare, un altro è la gratuità nel fare del male». Un passaggio condiviso anche da una operatrice sociale che lavora con ragazzi ai margini: «Il coltello diventa un modo per segnalare la propria esistenza. Il proprio desiderio di essere ascoltati in un mondo di adulti sempre più sordo».
Ma corso Como, le sue albe senza sonno, le cartoline di bulli e pupe rilanciate sui social, le tute nere in triacetato con borsello dei maranza sono forse un orizzonte limitato. Come la consapevolezza che questo tipo di criminalità – tutt’altro che piccola, nel percepito di chi la subisce- si lega alle città che producono maggiore ricchezza.
Quel disagio, quella rincorsa al cuore del Regno dei Kappa costringe ad un percorso a ritroso, ad attraversare l’altro lato della Milano del turismo, delle Olimpiadi e del Quadrilatero della moda, che sale e balla sulle terrazze e si allontana da quella sempre più spinta ai margini.
Guido lo scooter verso Sud. Sono cresciuto a Gratosoglio, via dei Missaglia è un’arteria dove si mescolano palazzi popolari e strade borghesi, caseggiati degradati e – a pochi chilometri – i grandi spazi verdi di Milano 3 che custodiscono uno dei Pil più alti del Paese.
In questa terra di mezzo, una delle periferie che sembrano sempre in costante ebollizione – Corvetto, Quartoggiaro, Giambellino – cerco Don Paolo Steffano. La sua chiesa di Baranzate è diventata il centro della vita di 82 diverse nazionalità che hanno germinato un progetto di inclusione unico. Qui a Grato, invece, manda avanti quattro parrocchie. Il salto di scala è notevole: 35mila abitanti – una città nella città -, le contraddizioni di un’emigrazione multiculturale, l’impoverimento generale della piccola borghesia, l’assenza – per molti – di alternative alla strada.
L’oratorio è diverso da come lo ricordavo: dove c’era uno spiazzo di fango, oggi c’è uno scintillante campo da calcio sintetico. La battaglia per l’inclusione passa anche da quel rettangolo di sogni. «Vuoi sapere dove sbatto la testa?», mi domanda mentre passeggiamo sulla linea dell’out, nel piccolo Maracanà ritagliato tra i palazzoni. «Ci sono ragazzi che non possono pagarsi la visita medica per l’idoneità sportiva. Sono 70 euro l’anno. Quelli rischio di perderli tutti: non riesco a darmi pace».
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C’è un apparente contrasto tra la bellezza del campo, ricostruito con sponsor e donazioni, e la fatica nelle parole del Don al quale non è mai mancata la vocazione a svuotare oceani col cucchiaino. Ne parliamo mentre mi mostra il piccolo teatro dell’oratorio, uno spazio aggregativo «sgarrupato» ma vivacissimo: «Servono educatori e progetti. Lo spogliatoio pulito o il campo perfetto non bastano. Bisogna lavorare sui dieci anni. Bisogna osare la continuità».
In fondo e un po’ prosaicamente, anche questa è solo una questione di dove mettere i Kappa. È la sfida di Milano: la battaglia per tornare città-fisarmonica, per non perdere ciò che resta dell’illusione di non lasciare indietro nessuno.
*scrittore e giornalista







