
Astensione crescente e politica immobile: il vero segnale delle regionali
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25 Novembre 2025E le maggioranze della minoranza
Stavolta non è un calo, è un crollo. In media del 14% nelle tre Regioni interessate, con un picco di quasi il 17% nel Veneto industrioso e una volta – politicamente – “bianco”. Gli italiani non vanno più a votare: se ce ne fosse ancora bisogno, lo confermano Campania, Puglia e, appunto, Veneto. Il messaggio è chiaro: ormai è una picchiata e le picchiate, se non corrette (e pure con perizia), si sa come vanno a finire. La curva che descrive la desertificazione progressiva delle cabine elettorali italiane assomiglia sempre di più alla curva demografica che inchioda l’indice di natalità al minimo storico. Ma un Paese dove non si fanno più figli e una democrazia dove vota una minoranza sempre più esigua di cittadini hanno almeno un problema in comune: un futuro incerto.
Per l’uno e per l’altra, il momento di innestare la retromarcia è arrivato da un pezzo. Non oggi e nemmeno ieri, diciamo almeno l’altroieri. Limitandoci qui al tema elettorale, non bisogna dimenticare che l’astensionismo non è la malattia, ma il sintomo che aiuta a diagnosticarla. Inutile girarci intorno: la malattia è quella di una politica che non coinvolge, non attira, forse respinge.
Una politica che non riesce più a “far battere il cuore” alla maggioranza degli italiani. Una scena del film “C’è ancora domani”, rara per forza narrativa e poetica, mostra la protagonista (nonché regista) Paola Cortellesi prepararsi per andare a votare come per recarsi all’appuntamento con un uomo innamorato e amato alla follia. È vero, quello era “il voto” per eccellenza, nella nostra storia: il referendum per scegliere tra Repubblica e Monarchia e per eleggere l’Assemblea Costituente. E certo, era la prima volta che le italiane potevano votare, almeno a livello nazionale. Ma quell’amore, quella passione e quell’impegno non sono terminati il 3 giugno 1946 e non hanno riguardato soltanto le donne. Per anni, la maggior parte degli italiani elettori si sono mobilitati, nei partiti e fuori, per affermare le loro idee. Oggi prevale il voto “organizzato” tra i militanti dei partiti (una minima parte degli iscritti che potevano vantare Dc, Pci e Psi, solo per citare le forze politiche di massa della cosiddetta Prima Repubblica) e dei portatori di interessi specifici, con il rischio crescente ‒ a causa della rarefazione del libero voto di opinione ‒ di un condizionamento che vada oltre i limiti fisiologici.
Del resto, viviamo in un’epoca storica in cui il vero potere risiede nelle mani di un pugno di miliardari che hanno redditi superiori al Pil di molti Stati. Ma non siamo sicuri che sia la rassegnazione (o, almeno, non soltanto questa) rispetto alle reali possibilità della politica, la ragione della disaffezione degli italiani nei confronti delle elezioni. Più probabile, semmai, che di volta in volta stiamo raccogliendo in terra il frutto troppo maturo di una narrazione populista che ha identificato tutta la politica come “casta” e, con lei, anche l’informazione professionale. Le urla sui social hanno fatto il resto, costruendo bolle mediatiche dove si trovano solo quelli che la pensano allo stesso modo e confezionando “verità” almeno parziali (quando non fasulle) che nessuno ha la forza, né forse la voglia, di confutare. Alla fine, come negli stadi moderni, le curve fanno la voce grossa, gli altri si defilano.
Perciò i leader nazionali dei partiti, oltre a commentare vittorie (quasi sempre «grandi) e sconfitte (quasi sempre «di misura» o «a testa alta»), dovrebbero seriamente chiedersi fino a quando vogliono vincere, quando vincono, con i consensi della maggioranza della minoranza degli italiani. C’è ormai un chiaro problema di rappresentatività, quindi di democrazia reale, da affrontare e da risolvere. C’è anche da interrogarsi, al termine di questa lunga tornata elettorale autunnale, su quanto le Regioni siano effettivamente sentite “vicine” dai cittadini che vi risiedono. C’è, insomma, da tornare a far battere i cuori. Individuare le soluzioni è compito dei partiti, che la Costituzione indica come gli strumenti attraverso i quali gli italiani possono «determinare con metodo democratico la politica nazionale». Forse si potrebbe cominciare smussando gli angoli di una polarizzazione esasperata, smettendo di promettere tutto a tutti, riportando il Parlamento al centro del processo legislativo, riconoscendo convintamente il ruolo della libera stampa quale interfaccia attendibile tra la politica e il Paese. C’è ancora domani. Ma bisogna sbrigarsi.





