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25 Novembre 2025Lavoro La misura contenuta in un emendamento alla legge sulle Pmi. Attraverso una certificazione i committenti sarebbero privi di responsabilità. La campagna “Abiti puliti” insieme ai sindacati lancia una petizione per chiederne il ritiro
Si tratta di un colpo di spugna, o in ogni caso di rendere inefficaci le inchieste della magistratura di Milano sulla filiera della moda, che nelle ultime settimane hanno coinvolto Tod’s, Loro Piana, Armani, Valentino, per citarne alcuni. È il caso dell’articolo 30 del disegno di legge sulle Piccole e medie imprese, approvato al Senato e ora in discussione alla Camera, che esclude i grandi marchi dalla «responsabilità amministrativa» nei casi di illeciti commessi lungo la filiera di produzione, come possono essere lavoro nero, sfruttamento, mancato rispetto delle norme sulla sicurezza.
LA MISURA è stata inserita in corso di discussione a Palazzo Madama, a mezzo di un emendamento presentato dai senatori di Fratelli d’Italia Bartolomeo Amidei e Renato Ancorotti, diventando un articolo del ddl ora alla Camera. Dove si prepara alla discussione in Commissione, affidata al deputato forzista Fabio Pietrella in qualità di relatore, già presidente di Confartigianato moda e imprenditore del settore. L’emendamento prevede che attraverso una certificazione unica di «Filiera della moda certificata», ottenuta su base volontaria, i grandi marchi non solo potranno giovare dell’etichetta a fini promozionali e di marketing, ma anche appunto ritenersi esclusi in temi di responsabilità in materia organizzativa e gestionale.
Ciò che sindacati, opposizioni e associazioni del settore hanno definito una forma di «scudo» da eventuali azioni della magistratura, come quelle condotte dal pm di Milano Storari che ha indagato non solo le aziende in appalto e subappalto, ma anche i committenti. Il ministro delle Imprese (e del Made in Italy) Adolfo Urso ha salutato con gioia il nuovo pacchetto di misure: «Siamo in campo con misure concrete per difendere con fermezza la moda italiana, per proteggerne la reputazione e i valori che l’hanno resa sinonimo di bellezza, qualità e autenticità: il Made in Italy che il mondo ammira e che abbiamo il dovere di tutelare e rendere ancora più forte anche sul piano della legalità» ha scritto al momento dell’approvazione dell’emendamento in Senato, inserito a metà ottobre poco dopo l’ultima richiesta di amministrazione giudiziaria per Tod’s.
«L’IDEA di risolvere il caporalato attraverso le certificazioni è del tutto fallimentare», dice Francesca Ciuffi di Sudd Cobas, «negli anni abbiamo riscontrato più di un caso di sfruttamento in aziende certificate. È accaduto alla Z Production, fornitore di primo livello di Montblanc a Campi Bisenzio, in Toscana, dove i lavoratori hanno raccontato di turni di dodici ore, sei giorni a settimana, pagati tre euro l’ora. Ma anche all’Alba di Montemurlo, dove la titolare ha aggredito un lavoratore: anche quella era un’azienda certificata».
Tra i dubbi rimane anche l’affidabilità degli enti certificatori, rispetto a competenza e terzietà. «Innanzitutto, è una certificazione del tutto cartolare, una documentazione che attesta che si rispetti la legge in materia contributiva, fiscale e giuslavoristica, e che le imprese devono già presentare in fase di onboarding, ovvero alla stipula del contratto. Una certificazione che giustifica l’ovvio, e che anzi depotenzia la legge» spiega Deborah Lucchetti, coordinatrice della campagna Abiti Puliti. «Questa certificazione renderà ancora più difficili le indagini e garantirà l’impunità ai soggetti più forti: i marchi committenti.
Il caporalato è un fenomeno strutturale che si crea a partire da pratiche commerciali sleali, a partire dai prezzi di commessa che sono talmente bassi che spingono i fornitori a organizzarsi per rimanere competitivi. Quello che viene chiamato “disaccoppiamento organizzativo”: sul piano formale va tutto bene, ma poi pago talmente poco sapendo già che quel costo non ti consentirà di rispettare le norme e i contratti, una autorizzazione implicita a operare nell’illegalità» prosegue.
LA CAMPAGNA ha lanciato oggi con sindacati e associazioni una petizione affinché la norma venga ritirata e si proceda a una riforma del settore della moda, basata sulla responsabilità della filiera e una transizione giusta sul fronte dei lavoratori e della tutela ambientale. «Delle due l’una: o il brand sa cosa succede, e ne è quindi corresponsabile, o non lo sa perché non verifica, e quindi è negligente» conclude.
Il testo dell’appello è disponibile sul sito www.abitipuliti.org





