
Montepulciano, tra autocelebrazione e un vuoto politico che resta aperto
1 Dicembre 2025di Pierluigi Piccini
Si è chiusa da poche settimane, nel consueto appuntamento di ottobre al Teatro Ricci Barbini, la XXVII edizione di “Penne Sconosciute” e la XXII di “Video Sconosciuti”. Ventisette anni di un concorso nazionale di giornalismo scolastico che Piancastagnaio ospita grazie alla Pro Loco e al Comune. Ventisette anni che invitano a una domanda semplice solo in apparenza: perché continuare?
La risposta celebrativa — perché funziona, porta giovani, valorizza talenti — non basta. Non dice che cosa significhi, per un piccolo comune dell’Amiata, sostenere per quasi tre decenni un archivio vivo della memoria comunicativa delle scuole italiane.
L’Emeroteca di Piancastagnaio non raccoglie solo giornalini scolastici. È un luogo in cui si deposita il tempo: i linguaggi che cambiano, le preoccupazioni che emergono, il modo in cui le nuove generazioni hanno imparato a raccontarsi dal 1998 a oggi. La digitalizzazione iniziata nel 2015 ha ampliato questo patrimonio, rendendolo consultabile e trasformandolo in una risorsa pubblica che attraversa Nord e Sud, città e montagne. Scorrere quei giornali significa vedere come, negli anni, i temi si spostano: dall’Europa e dal passaggio all’euro alle questioni ambientali, dal terrorismo alla salute mentale. La storia recente prende forma nelle parole degli studenti.
Questo archivio non custodisce “voci fresche”, formula che rischia di semplificare. Custodisce il lavoro reale di redazioni scolastiche che hanno usato la scrittura per pensare insieme, per trasformare esperienze in racconto, per costruire punti di vista argomentati. È la traccia di un’attività formativa che va oltre le tecniche del giornalismo e riguarda qualcosa di fondamentale: la capacità di stare nel proprio tempo con consapevolezza.
In un’epoca di comunicazione frammentata, di messaggi immediati e di immagini che travolgono il testo, questa pratica è quasi un atto di resistenza. Il giornalismo scolastico richiede lentezza: cercare, discutere, impaginare, assumersi la responsabilità di ciò che si pubblica. Tutto ciò che oggi tende a essere consumato in pochi secondi trova qui un tempo diverso.
Il progetto “Dialogo tra le generazioni – memoria per il futuro” chiarisce bene l’obiettivo: far parlare tra loro epoche diverse, usare l’archivio non come un museo della nostalgia, ma come uno strumento di confronto. I giornalini degli anni Novanta non sono reperti: sono specchi che mostrano come mutano gli sguardi sul mondo.
Per Piancastagnaio, continuare significa scegliere una posizione culturale e politica. Dire che un piccolo comune può essere centro non per numeri, ma per visione. Ogni ottobre, quando il Teatro Ricci Barbini accoglie studenti e insegnanti da tutta Italia, la periferia geografica diventa centro simbolico. Non è un caso né un automatismo: nessun altro territorio in Italia ha costruito un archivio così ampio e così costante del giornalismo scolastico.
Naturalmente, tutto questo richiede continuità: risorse, organizzazione, cura. E richiede di resistere alla tentazione della visibilità immediata. Un archivio vive nel tempo lungo, e il suo valore non si misura stagione per stagione.
Heidegger chiamava “custodire” il modo autentico di prendersi cura delle cose essenziali. L’Emeroteca di Piancastagnaio custodisce così: non per nostalgia, non per autocelebrazione, ma per mantenere vivo un patrimonio che altrimenti si disperserebbe. È un gesto che dice molto sulla responsabilità culturale dei territori.
Ventisette anni sono tanti, e insieme pochi per costruire una tradizione stabile. L’edizione 2025 non chiude un ciclo: apre la domanda sulle prossime. Chiede di continuare non per abitudine, ma per convinzione.
E continuare significa riconoscere che in un tempo accelerato servono spazi di riflessione lenta; che in un’epoca di memoria fragile occorrono luoghi capaci di conservarla; che nei territori interni la cultura non è un lusso, ma una forma di cittadinanza. È un atto politico nel senso più pieno.
Per questo è necessario proseguire. Non per celebrare ciò che è già stato, ma per mantenere aperta una possibilità. Non per ripetere, ma per interrogare il senso di ciò che si fa. Non per riempire un calendario, ma per coltivare un radicamento vivo, simile a quello che Giacomo Barzellotti — tornato a Piancastagnaio nel 1917, a settantatré anni — avrebbe probabilmente riconosciuto come impegno autentico verso la propria comunità: non rifugio nel passato, ma costruzione condivisa di un significato.





