
La città dei superlativi
6 Dicembre 2025
di Pierluigi Piccini
La fotografia che è apparsa su Facebook, tutta pieghe, crepe e angoli consumati, l’ho riconosciuta subito. Appena l’ho vista, si è riaperto un mondo che credevo custodito solo nella memoria. Siamo al convento di San Bartolomeo, un luogo che da tempo era rimasto senza frati. Le loro voci non risuonavano più e il convento era diventato un guscio silenzioso, abitato dal vento, dalle pietre e da chi, come Tonino, ne custodiva ciò che restava dell’anima.
Tonino è lì, sotto la volta del nucleo originario del convento, con un gattino tra le mani. Le sue mani piccole ma abilissime accarezzano quell’animale come se fosse una cosa preziosa. Era un uomo straordinario: intelligente, curioso, capace di aggiustare tutto, di scrivere pagine indimenticabili, di restaurare bambole come se rimettesse insieme la loro storia. La sua casa era un vero bazar, un luogo in cui io bambino mi perdevo tra tesori, oggetti strani, collezioni improvvisate e invenzioni inesauribili.
Sotto di lui c’è Pola, la sua lupa, fiera e fedele. Ogni mattina scendeva a prendere il giornale e glielo riportava come se fosse un compito sacro. Con me giocava, mi faceva da guardiana, mi lasciava correre libero intorno al convento. Il suo sguardo mi ha accompagnato per anni, dandomi un senso di protezione che ancora ricordo.
Sul fondo della foto, quasi nascosta dalla luce, c’è mia nonna Maria. Una presenza solida e affettuosa, che ha segnato le mie estati più belle. Con lei e con mio nonno Nanni ho vissuto giorni lontani dalle restrizioni di Roma: a Piancastagnaio respiravo un’aria di libertà che allora non sapevo nominare, ma che oggi riconosco come fondamentale nella mia vita.
E poi c’erano le sere. L’aia dietro il convento si riempiva di lucciole. Si accendevano una dopo l’altra, come piccole stelle a portata di mano. Le guardavo fluttuare nell’aria, sospese tra la terra e il buio, e sentivo che quel luogo custodiva un ordine segreto, una bellezza semplice, quasi timida, che non aveva bisogno di parole.
Ma il convento, per me bambino e poi adolescente, era anche un luogo misterioso, pieno di racconti, di ombre, di paure che non sapevo spiegare. Era un edificio che sembrava respirare da solo, e la notte, quando tutto taceva, aveva un suo rumore particolare, come un bisbiglio. L’aia dietro il convento era uno dei nostri rifugi, soprattutto quando la terra cominciava a tremare — e a Piancastagnaio tremava spesso. Allora si scendeva tutti fuori, avvolti in una coperta che serviva anche da materasso. Si dormiva così, all’aperto, guardando il cielo come fosse un tetto provvisorio.
Mio nonno Nanni non scendeva quasi mai. Rimaneva dentro, immobile, come se nulla potesse davvero sorprenderlo. “Se deve accadere, accadrà”, diceva. Era un fatalismo antico, asciutto, che lo ha sempre caratterizzato.
Una sera, ero già più grande, restai fuori con mia nonna Maria. Mi chiese cosa fossero le stelle, cos’è l’universo. Fu la prima volta che provai a raccontare a qualcuno l’immensità, con le parole che avevo allora. Passammo la notte svegli, guardando il cielo scuro. Ricordo ancora come, per scherzare, le citai il “libro del contadino”, dove l’universo veniva descritto come una forma di formaggio piena di buchi, con i vermi che lo attraversano. Lei rise, ma poi rimase a lungo in silenzio, come se quell’immagine ingenua nascondesse una sua verità.
Quando Tonino ci lasciò, fu mio nonno Nanni a diventare il sacrestano di San Bartolomeo. Non fu solo un passaggio di ruolo: per me era come se un filo invisibile unisse i due, mantenendo viva una continuità fatta di cura, silenzio e rispetto per quel luogo che non aveva più frati ma aveva ancora un’anima. E qualche volta, tutte e due, mi lasciavano suonare le campane.
La fotografia comparsa su Facebook oggi custodisce tutto questo. Non è solo un’immagine: è una soglia. Dentro ci sono le lucciole dell’aia, la lupa Pola, il bazar di Tonino, la dolce fermezza di mia nonna, il fatalismo di mio nonno, le notti passate per paura della terra che tremava, e quella libertà infantile che continua a illuminare la mia vita, proprio come facevano le lucciole nelle sere d’estate.





