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Note su Hölderlin, Heidegger e il fondamento poetico dell’essere
Sintesi
Quando Hölderlin scrive “ciò che resta lo fondano i poeti”, ci consegna qualcosa di radicale: la poesia non è ornamento della cultura, ma il gesto stesso attraverso cui il mondo acquista stabilità e senso. Heidegger riconosce in questo verso la chiave per ripensare il fondamento oltre la metafisica: la parola poetica non rappresenta l’essere ma lo istituisce, lo porta alla luce strappandolo alla confusione.
Ma Hölderlin e Heidegger condividono anche una diagnosi tragica: viviamo in un “tempo di povertà”, nell’epoca in cui “gli dei sono fuggiti”. Il problema peggiore non è l’assenza del divino, ma l’incapacità di avvertire questa assenza, di sentirne il peso. Il compito del poeta è allora nominare questa mancanza, custodirla, impedire che venga dimenticata. Non colmare il vuoto con surrogati, ma testimoniare l’attesa, mantenere aperta la promessa.
Ciò che distingue Hölderlin dai suoi compagni dello Stift – Hegel e Schelling – è il rifiuto di ogni riconciliazione dialettica. Mentre Hegel cerca di “superare” la scissione attraverso il concetto, Hölderlin resta fermo nella lacerazione, nella “conciliazione entro la discordia”. Il negativo non è un momento da oltrepassare, ma la dimensione permanente dell’esistenza. La bellezza stessa porta in sé una “porzione di negativo” che nessuna dialettica può redimere.
Questo ha implicazioni concrete per chi lavora con la cultura: se la poesia è fondamento dell’essere, il compito culturale autentico non può limitarsi alla gestione di eventi o all’intrattenimento, ma deve mantenere aperto quello spazio in cui può risuonare la parola che fonda. La fedeltà al negativo – sostare nell’assenza senza riempirla prematuramente, nominare la mancanza senza pretendere di colmarla – è l’unica resistenza possibile alla povertà spirituale del nostro tempo.
La poesia come fondamento
Una questione attraversa da sempre il mio lavoro nell’ambito della cultura: quale sia il compito autentico della poesia in un’epoca di povertà spirituale, in un tempo che ha smarrito persino la coscienza della propria miseria.
Quando Hölderlin scrive “ciò che resta lo fondano i poeti”, ci dice che il poeta non descrive ciò che già esiste: lo istituisce, lo porta all’essere attraverso la parola. Heidegger ha colto questo con lucidità: “Il poeta nomina gli dei e tutte le cose in ciò che esse sono. Questo nominare non consiste nel fatto che qualcosa di già noto prima verrebbe soltanto provvisto di un nome, ma, invece, quando il poeta dice la parola essenziale, l’ente riceve solo allora, attraverso questo nominare, la nomina a essere ciò che è.”
Questa concezione rovescia l’idea di poesia come rappresentazione per farne l’origine stessa del reale. Non si tratta di idealismo: si tratta di riconoscere che senza la parola poetica – quella parola che non comunica informazioni ma apre mondi – non avremmo accesso all’essere delle cose.
L’epoca della povertà
Hölderlin e Heidegger condividono una consapevolezza tragica: quella di vivere in un “tempo di povertà”, nell’epoca in cui “gli dei sono fuggiti”. “La mancanza di Dio”, scrive Heidegger, “significa che non c’è più nessun Dio che raccolga in sé gli uomini e le cose.” E aggiunge: “Il tempo della notte del mondo è il tempo della povertà perché diviene sempre più povero. È già diventato tanto povero da non poter riconoscere la mancanza di Dio come mancanza.”
Ecco il punto: non è l’assenza del divino il problema peggiore, ma l’incapacità di avvertire questa assenza. Viviamo in un tempo che ha perso persino il dolore per ciò che ha perduto. Il compito del poeta non è colmare questa assenza – cosa che nessuna retorica può fare – ma nominarla, custodirla, impedire che venga dimenticata.
Cristo entra nella poesia di Hölderlin come “presenza dell’assente nella sua assenza”: non inventare consolazioni, non fabbricare surrogati, ma testimoniare l’attesa, custodire la promessa, mantenere vigile la memoria di ciò che manca.
Contro ogni riconciliazione
Ciò che distingue Hölderlin dai suoi compagni dello Stift – Hegel e Schelling – è il rifiuto di ogni riconciliazione dialettica. Mentre Hegel cercherà di “superare” la scissione attraverso il movimento del concetto, Hölderlin resta fermo nella lacerazione, nella “conciliazione entro la discordia”. Non c’è sintesi possibile. Il negativo non è un momento da oltrepassare, ma la dimensione permanente dell’esistenza.
La bellezza stessa – categoria centrale per Hölderlin – porta in sé il tratto di una vicinanza abissale al nulla, “una porzione di negativo” che nessuna dialettica può redimere. È questa accettazione del tragico che rende Hölderlin così attuale. In un’epoca che pretende di risolvere tutto attraverso la tecnica e la gestione manageriale, Hölderlin ci ricorda che alcune lacerazioni sono costitutive, che il dolore non è un problema da risolvere ma una dimensione dell’essere da abitare.
Il Sacro e la sua manifestazione vespertina
Hölderlin adopera tre espressioni per nominare il Sacro: das Heilige, das Höchste, der Abgrund – l’abisso. Il Sacro non è il divino: è ciò da cui il divino stesso emerge, apertura originaria fondativa. In Come quando al dì di festa scrive:
L’attesi, l’ho veduto venire.
Quello che vidi, il Sacro, sia la mia parola.
Ma questo Sacro non si manifesta come presenza piena: si mostra nell’assenza, nella lontananza, nel ritrarsi. Tutta la poesia di Hölderlin è una “teofania vespertina”: il divino si manifesta nell’ora del crepuscolo, per un attimo soltanto, prima che cali la notte. In questo momento di passaggio il poeta coglie la presenza degli dei – ma la coglie già come tramonto, già come congedo.
La missione del vate
Il poeta hölderliniano è un vate: custodisce la memoria del sacro e tiene desta l’attesa del ritorno. La sua missione è storica: egli si colloca nel punto di svolta tra un’epoca e l’altra, tra la fuga degli dei e la loro promessa di ritorno.
Ma poiché così prossimi sono gli Dei presenti
debbo essere come se fossero lontani, e oscuro tra nubi
deve esserci il loro nome
Il poeta deve nominare gli dei mantenendoli nella lontananza. È questa paradossale vicinanza-nella-distanza che definisce il suo compito. Non può riportare gli dei sulla terra, ma può – deve – custodire la memoria della loro assenza e la promessa del loro ritorno.
Heidegger e il rovesciamento del fondamento
Heidegger riconosce in Hölderlin il “poeta del poeta”, colui che ha pensato più a fondo l’essenza della poesia stessa. Il verso “ciò che resta lo fondano i poeti” diventa la chiave per ripensare la questione del fondamento oltre i limiti della metafisica.
“La poesia è istituzione attraverso la parola e nella parola”, scrive Heidegger. “Che cos’è che viene così istituito? Ciò che resta stabile. Ma ciò che è stabile può mai venir istituito? Non è già sempre presente? No! Proprio lo stabile deve essere fissato, lottando contro il travolgimento.”
Il fondamento non è un dato originario che precede ogni cosa. È ciò che viene istituito dalla parola poetica, strappato alla confusione, portato alla luce. La poesia non è secondaria rispetto alla filosofia: è l’origine stessa da cui essa trae la sua possibilità. Non è la filosofia a fornire il fondamento alla poesia, ma è la poesia a istituire quel fondamento su cui poi la filosofia può edificare il suo discorso.
La bellezza tragica e Empedocle
Nell’Iperione, Hölderlin elabora una concezione della bellezza che si distacca radicalmente dall’estetica idealistica. La bellezza non è armonia serena ma “conciliazione entro la discordia stessa”, ciò che tiene insieme gli opposti senza annullarne il conflitto.
La figura di Empedocle rappresenta il culmine di questa concezione tragica. Ha sperimentato l’unità con la Natura così profondamente da non poter più vivere nella separazione. Ma questa unità non può essere espressa, comunicata. Di fronte a questa impossibilità, Empedocle sceglie la morte – non come fuga, ma come compimento:
sempre più si avvicina la mia ora […] e tu, Natura, mi porgi
il calice tremendo e spumeggiante,
affinché il tuo cantore possa bere
l’entusiasmo supremo!
Empedocle è l’eroe moderno del negativo, colui che resta nella potenza del negativo rifiutando ogni logodicea, ogni tentativo di conciliazione fittizia.
Poesia e religione rovesciate
Nel frammento Il più antico programma sistematico dell’idealismo tedesco, Hölderlin scrive: “La mitologia deve diventare filosofica, così da rendere il popolo razionale, e la filosofia deve diventare mitologica, così da rendere sensibili i filosofi […]. Uno spirito superiore inviato dal cielo dovrà fondare tra noi questa nuova religione.”
Si annuncia un rovesciamento radicale: non è la religione a fornire i contenuti alla poesia, ma è la poesia a istituire quella dimensione del sacro che poi la religione può articolare. Nell’Iperione scrive: “La prima creatura della bellezza umana e della bellezza divina è l’arte […]. La seconda creatura della bellezza è la religione. Religione è l’amore della bellezza.”
L’arte precede la religione. Gli dei non sono entità trascendenti che si rivelano, ma creazioni dell’uomo nel momento in cui, attraverso l’arte, prende coscienza della propria essenza. Il sacro non è un dato originario ma un’istituzione poetica: gli dei esistono in quanto nominati dalla parola del poeta.
Rammemorazione e attesa
Tutta la poesia di Hölderlin è attraversata da tensione escatologica: l’attesa del ritorno degli dei, del compimento della promessa. Ma questa attesa non è passiva: è sostenuta dalla rammemorazione. Il poeta non inventa il futuro, ma lo prepara custodendo la memoria del passato. Il ritorno degli dei non sarà l’irruzione di una novità assoluta, ma il compimento di ciò che è sempre stato promesso.
Il poeta può nominare gli dei solo nell’ora crepuscolare, solo nel tempo dell’attesa. Quando verrà il compimento, il poeta tacerà. Il suo compito è tutto racchiuso in questo tempo intermedio, in questa soglia tra assenza e presenza.
Implicazioni per il lavoro culturale
Se prendiamo sul serio Hölderlin e Heidegger, dobbiamo riconoscere che il lavoro culturale autentico non può limitarsi alla gestione di eventi o all’intrattenimento. La tentazione è sempre quella di ridurre la cultura a risorsa economica, a elemento di marketing. Ma se la poesia è fondamento dell’essere, il compito di chi lavora con la cultura è mantenere aperto quello spazio in cui può ancora risuonare la parola che fonda, quella parola che non comunica informazioni ma apre mondi.
Quando organizziamo una mostra, un convegno, una commemorazione, dovremmo chiederci: questa iniziativa istituisce qualcosa che resta? Apre uno spazio di verità? La differenza non è quantitativa ma qualitativa, e dipende dalla capacità di toccare quella dimensione del sacro che Hölderlin chiamava das Heilige: non il religioso istituzionale, ma quell’apertura originaria che precede ogni distinzione.
La fedeltà al negativo
Il rischio maggiore è quello della retorica consolatoria. Di fronte alla povertà del tempo, la tentazione è sempre quella di fornire risposte facili, di riempire il vuoto con surrogati, di celebrare anziché interrogare. Contro questo, Hölderlin ci insegna la fedeltà al negativo: la capacità di sostare nell’assenza senza riempirla prematuramente, di nominare la mancanza senza pretendere di colmarla, di mantenere aperta la domanda anziché chiuderla con risposte prefabbricate.
Le iniziative culturali più riuscite sono quelle che resistono a questa tentazione, che mantengono uno spazio di vuoto, di silenzio, di interrogazione aperta. Non si tratta di nichilismo ma esattamente del contrario: è il rifiuto di accontentarsi di sensi prefabbricati, la disponibilità ad attendere che il senso si manifesti. La laicità del giudizio non è neutralità, ma il rifiuto di chiudere prematuramente il senso, di sostituire al lavoro del pensiero le formule della commemorazione.
La follia e il destino del poeta
Per quarant’anni Hölderlin visse in uno stato di progressivo offuscamento mentale, fino a perdere quasi completamente il contatto con la realtà. Forse la sua follia è la conseguenza necessaria di quel rifiuto di ogni mediazione, di quella fedeltà assoluta al negativo, di quell’incapacità di accontentarsi delle conciliazioni fittizie che la ragione offre. Empedocle sceglie la morte; Hölderlin vive una morte in vita, un lento spegnimento in cui il poeta scompare per lasciare il posto a Scardanelli, l’alienato gentile che compone versi semplici sulle stagioni.
La follia di Hölderlin è il destino di chi ha vissuto fino in fondo la lacerazione, di chi non ha accettato compromessi, di chi ha portato a compimento quella “dialettica del sentimento” che si oppone alla “dialettica del concetto”. È il prezzo della fedeltà assoluta alla poesia intesa non come ornamento della vita, ma come suo senso ultimo.
Ciò che resta
Hölderlin è morto nel 1843, in un silenzio quasi completo. Solo all’inizio del Novecento è emerso come una delle voci più alte della modernità. Questo ritardo non è casuale. Hölderlin parla a un’epoca che ancora deve venire, a un tempo futuro che forse è il nostro.
“Ciò che resta lo fondano i poeti.” Questa frase non è una celebrazione retorica. È il riconoscimento di una responsabilità terribile: in un’epoca in cui tutto sembra destinato alla dissoluzione, solo la parola poetica può istituire ciò che è destinato a durare. Non si tratta di rifugiarsi nell’estetica, ma di riconoscere che la poesia è la forma più alta e più rischiosa del pensiero, quella che si assume il compito di nominare l’essere quando tutti gli altri linguaggi hanno fallito.
Il poeta non fornisce risposte. Mantiene aperta la domanda. Custodisce la memoria dell’assenza. Prepara lo spazio per un possibile ritorno. Nomina quietamente, nell’ora del crepuscolo, gli dei fuggiti. Questo è il compito che Hölderlin ci consegna. È forse l’unica cosa che conta, in un tempo di povertà come il nostro.
Alfredo Herbin





