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7 Dicembre 2025
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7 Dicembre 2025Osebol è il villaggio dell’entroterra svedese dov’è nata Marit Kapla , il suo luogo del cuore, «solo qui l’orizzonte è nel posto giusto». L’autrice ha fatto parlare gli abitanti di oggi, di ieri e di domani. Ne è nata una narrazione corale in versi
di roberto galaverni
Almeno dai tempi del Romanticismo sembra assodato che l’epica corrisponda a un modo di vedere e di mettere in forma di parole la vita che non è più concesso ai moderni. I termini stessi di antico e di moderno, del resto, si giustificano proprio a partire da distinzioni di questa natura. Il rilievo sempre maggiore attribuito alle singole personalità individuali, l’aumentata problematicità del rapporto dell’io con la vita, con gli altri, ma anche con sé stesso, nel corso dei secoli avrebbero infatti relegato in un passato inattingibile la condizione dell’oggettività senza incrinature, di una temporalità paradossalmente senza tempo e, insomma, del senso pieno e compiutamente risolto della realtà tutta.
Di qui l’atteggiamento nostalgico con cui spesso si è guardato a quel passato e a quelle possibilità, come se rispetto a esse il presente fosse comunque tutto in perdita. Di conseguenza, parlare di epica degradata per certe forme poetiche apparse nei secoli più recenti può sicuramente risultare legittimo. Anche se forse non è meno legittimo parlare di forme poetiche nuove e diverse, dal momento che congiungono, fino a farne una cosa sola, l’aspirazione mai del tutto corrisposta verso una mitica totalità perduta, con un nucleo rovente di tensioni e di groppi problematici che a quella erano sconosciuti.
I lettori del Canto di me stesso di Walt Whitman, ad esempio, sanno bene come il respiro epico della sua poesia, che per certi versi è smisurato, sia però tutto percorso dalla tensione tra l’io e l’altro, tra il singolo e la moltitudine, tra l’individuo e il mondo. E lo stesso può dirsi della per altro diversissima e celeberrima (esiste un libro di poesia moderna o contemporanea più conosciuto?) Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, che è comunque anch’essa tutta costruita sulla relazione feconda tra la voce individuale e quella della comunità cittadina, tra i singoli epitaffi e il cimitero sulla collina, o ancora tra le singole liriche e la loro organicità complessiva.
E proprio all’Antologia di Lee Masters, nonché alla stessa tensione tra io e noi, rimanda inevitabilmente Osebol, l’opera prima uscita per Garzanti della giornalista svedese, ma a questo punto anche scrittrice, Marit Kapla (la traduzione è di Andrea Berardini; non è presente il testo a fronte, forse perché anche così il volume è molto corposo, più di 800 pagine). Si tratta infatti di una raccolta di poesie che nell’insieme fanno, per così dire, poema, in quanto concordemente intese a restituire l’immagine tutta di un villaggio — Osebol appunto, dove Kapla è cresciuta e ha vissuto a lungo, e dove, soprattutto, ha lasciato il proprio cuore — e della sua sempre più sparuta comunità di abitatori, non importa se presenti, passati o eventualmente futuri. Diversamente da Lee Masters il riferimento è dunque a un luogo reale, a persone e a fatti non fittizi ma realmente accaduti (anche se poi, com’è noto, in letteratura le cose diventano comunque parole e, di conseguenza, ogni cosa si trasforma).
I testi delle poesie, non a caso, sono tratti dalle interviste che nel corso di due anni l’autrice ha appositamente fatto a quasi tutti gli abitanti del suo piccolo paese. La procedura potrà forse dare l’impressione di un movente giornalistico o magari documentaristico, e magari in parte sarà anche così. Eppure la necessità prima da cui deriva questo libro ha a che vedere con un’istanza tra le più inamovibili della nostra antropologia e, di conseguenza, della poesia come tale: quella di testimoniare, di lasciare una traccia del nostro passaggio nel mondo, di fissare in versi il destino individuale rispecchiandolo in quello della comunità e, viceversa, di riflettere la comune sorte umana nelle vicende e peripezie dei singoli individui. È insomma nell’attaccamento alla vita e nel riconoscimento di radici così profonde da potersi anche stendere in avanti come miraggi, che andrà cercato il movente di Osebol. «Osebol mi è rimasta dentro. Solo qui l’orizzonte è nel posto giusto», scrive Kapla nella postfazione.
In ogni caso pressoché tutte le poesie conservano traccia della dizione orale, lì dove i diversi locutori — con tanto di nome e cognome e di estremi cronologici — da intervistati si sono trasformati in altrettanti io poetici. Si direbbe anzi che l’autrice abbia operato soprattutto selezionando, tagliando e cucendo il materiale che aveva a disposizione. La traduzione italiana, che è in una lingua semplice e molto discorsiva, appena un po’ sentenziosa come la brevità testuale impone, fa pensare che già Kapla abbia evitato di tradurre il tono e le forme colloquiali di partenza in un linguaggio poetico predefinito. L’impressione di oralità è dunque molto forte, magari anche con i luoghi comuni o con le frasi fatte che un po’ tutti prima o poi si finisce per pronunciare. Ad esempio: «È vero che siamo sempre andati in fretta/ ma ho l’impressione che stia peggiorando»; o anche: «Le scuole piccole sono le migliori». E allo stesso modo risaltano qui le passioni, i rovelli, le fissazioni più particolari (quel luogo, quelle circostanze, quelle persone coi loro nomi), ma insieme anche più comuni e riconoscibili, perché davvero tutti le abbiamo: gli affetti, le relazioni personali, il lavoro, quelli che non ci sono più, le attese, i ricordi, i sogni. Se Osebol è Osebol, insomma, è anche vero che tutto il mondo è paese.
Ma si diceva del poema, o di quello che ne è rimasto, di quello che può essere. Molto significativamente il libro è dedicato «A tutti quelli che vivono, hanno vissuto e vivranno a Osebol». Se il tempo lungo e la percezione della coralità, di qualcosa d’indifferenziato che precede e comprende le differenze individuali, sono due componenti essenziali della sostanza epica, allora si può dire che l’orizzonte ultimo resta comunque quello. Un’aspirazione, come si diceva, mai del tutto raggiungibile, ma che in ogni caso dice di una possibilità, forse meglio di una direzione: «E c’è sempre voglia di tornare a Osebol, sai.// Dev’essere una specie di malattia.// Dev’essere qualcosa che mi porto dentro».





