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Esce in Italia, in prima edizione mondiale, una conferenza del 1966 in cui il pensatore francese analizza l’abbandono di metafisica e interiorità anticipato dal teologo tedesco
Apiù di vent’anni di distanza da quando, tra il 1943 e il 1945, il teologo protestante tedesco Dietrich Bonhoeffer si era chiesto, in un campo di concentramento nazista dove si trovava rinchiuso (prima di esservi ucciso il 9 aprile 1945), come mai la Seconda guerra mondiale non provocasse una «reazione religiosa», il filosofo francese Paul Ricoeur decise di ricavare, nel 1966, alcune domande «da quelle note sparse che sono come una specie di scintillio nella notte».
Si trattava di una conferenza su Bonhoeffer, tenuta al Centre Protestant de l’Ouest di Niort, nella regione della Nuova Aquitania, che Ricoeur, allora docente alla Sorbona, pubblicò subito, ma solo in forma dattiloscritta in rivista: e che adesso viene riproposta in prima edizione mondiale in libro per Morcelliana, con traduzione e cura di Ilario Bertoletti: Bonhoeffer. L’interpretazione non-religiosa del cristianesimo (pagine 68, euro 11,00).
Il filosofo, nato a Valence in Francia nel 1913 e formatosi, negli anni Trenta, a contatto col cattolicesimo francese della rivista “Esprit” e delle riunioni parigine “del venerdì” a casa di Gabriel Marcel, utilizzava ampiamente nello scritto del 1966 il famoso testo del teologo luterano, Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, non solo dimostrando, come mette in luce Bertoletti, una propria «militanza» all’interno del protestantesimo francese, ma anche imprimendo una (ancora non molto nota) “svolta protestante” alla propria filosofia, che fino a quel momento era sembrata innestarsi sul pensiero cattolico.
Era stato infatti proprio a partire dalla frequentazione di “Esprit” e di Marcel che Ricoeur, traducendo Ideen (l’opera del 1913 del fondatore della fenomenologia Edmund Husserl), aveva iniziato a criticare la centratura husserliana sul soggetto all’interno del processo conoscitivo, diventando uno degli esponenti principali dell’ermeneutica e della svolta antropologica della filosofia del Novecento, entrambe ruotanti sulla riscoperta della dimensione dell’esistenza. Prigioniero in Pomerania durante la Seconda guerra mondiale, era poi stato docente all’Università di Strasburgo dal 1948 al 1956, anno del passaggio alla Sorbona, dove la sua critica al soggettivismo moderno husserliano avrebbe beneficiato della lettura di Kant (in particolare i temi del male, della finitezza e della colpa) e di Freud, ma anche dei fondatori novecenteschi dell’esistenzialismo (Karl Jaspers e Martin Heidegger) e di Verità e metodo di Hans Georg Gadamer (1960): giungendo così alla pubblicazione di Finitudine e colpa (1960), dove non le idee, ma «il simbolo dà a pensare». Nell’incontro con il pensiero di Bonhoeffer, Ricoeur vedeva la possibilità di proseguire lungo questo sentiero antirazionalista: e ciò in quanto anche il teologo luterano (rientrato dagli Usa in Germania nel 1940 allo scoppio della guerra con l’ultima nave per l’Europa per stare vicino al suo popolo) aveva provato a “de-razionalizzare” il cristianesimo. Il Novecento, infatti, era, per Bonhoeffer, un tempo in cui era finita la religione cristiana, intesa nelle sue due dimensioni (metafisica e interiore): dopo il tramonto del Dio della metafisica o dei filosofi (avvenuto nel corso della filosofia e della cultura moderne), stava tramontando anche il Dio dell’«interiorità », che veniva cercato nelle «esperienze limite dell’uomo: morte, peccato, sofferenza».
«Ora, dice Bonhoeffer, questo “Dio” continua ad arretrare nella misura in cui la conoscenza progredisce. Noi siamo in una fase della cultura nella quale “Dio” è stato posto ai confini del mondo. E, nell’ultima fase, si tenta di trattenerlo, come spiegazione “tappabuchi”, in quanto risposta alle questioni insolubili, una soluzione delle domande senza risposta: ovvero, si ricorre a questo “Dio” ai confini dell’esperienza, quando le risorse dell’esperienza sono state esaurite o quando sono impotenti. È quindi veramente il “deus ex machina”, al quale si ricorre per trovare una soluzione a una situazione intellettuale irrisolta. L’uomo, afferma Bonhoeffer, è divenuto maggiorenne nel senso che ha appreso a far fronte a tutte le domande di fondo senza ricorrere a questo “Dio” come ipotesi di lavoro».
Ricoeur ricordava come questo tramonto fosse salutare, agli occhi di Bonhoeffer, in quanto il cristianesimo autentico avrebbe dovuto essere non quello che parla all’«uomo religioso » (cioè, all’uomo che attraverso la propria interiorità cerca la salvezza), ma quello di Gesù Cristo, che parla invece all’«uomo non-religioso »: vale a dire a un uomo che scopre la fede non come risposta a una ricerca umana interiore, ma « per ciò che essa è: fede».
Non era difficile rintracciare in questa impostazione, che al tentativo umano di diventare santi sostituiva il solo credere, l’eredità del calvinista svizzero della prima metà del Novecento Karl Barth; ma Ricoeur, oltre a ciò, riteneva che in Bonhoeffer ci fosse un passo in più rispetto al “ sola fides” barthiano, proprio nel momento stesso in cui affermava che la fede doveva parlare solo all’uomo «non-religioso »: fede e ateismo non erano più mondi separati, dal momento che poteva esistere una fede che dava ragione all’ateismo di Nietzsche, cioè all’affermazione della morte di Dio, a patto di intendere con “Dio” solo il Dio della metafisica e dell’interiorità.
E fu proprio dopo aver interiorizzato questa eliminazione bonhoefferiana della metafisica e dell’interiorità dal rapporto dell’uomo con Dio che Ricoeur poteva affermare, qualche anno dopo, ne Il conflitto delle interpretazioni (1969), che «bisogna che un idolo muoia affinché inizi a parlare un simbolo dell’essere»: iniziava, quindi, un percorso che lo avrebbe portato, durante il decennio successivo di docenza a Lovanio e a Nanterre (Paris-X), a La metafora viva (1975) e, infine, a Dal testo all’azione (1986), Sé come un altro (1990) e La memoria, la storia e l’oblio (2000). Paul Ricoeur morì nella sua casa di Châtenay-Malabry, alle porte di Parigi, il 20 maggio 2005.
«“Dio è morto” indica quel posto vuoto per predicare la Croce»
Pubblichiamo i passaggi della conferenza del 1966 nei quali Ricoeur legge il « Dio di Gesù Cristo » di Bonhoeffer in continuità con l’affermazione « Dio è morto» di Nietzsche.
Di qui l’attesa di una nuova predicazione che metta direttamente in relazione il Vangelo e l’uomo nonreligioso, oltre la morte del Dio filosofico, al di là della fine del discorso metafisico e individualista. Tutto questo è possibile? È possibile – siamo qui unicamente nell’ordine della possibilità – se si radicalizza per il XX secolo ciò che Lutero aveva tentato di radicalizzare per il XVI secolo? La distinzione tra il Vangelo e la Legge. Di fatto Lutero aveva cominciato questa radicalizzazione, poiché san Paolo pensava a leggi assai determinate quando affermava che la circoncisione non è la condizione della fede. Trascriviamo questo per il XX secolo: la religione non è la condizione della fede. […] Cosa diventa la parola “Dio”, il nome di Dio? La risposta che dà Bonhoeffer è radicale: il Dio della metafisica e della interiorità è morto. In questo senso Nietzsche ha ragione quando afferma « Dio è morto»: ci resta solo il Dio di Gesù Cristo. Quel che non possiamo più fare è una teologia, ma ciò che dobbiamo fare è una cristologia, ed è questa cristologia che può restituirci una teologia. E il cristiano, dice Bonhoeffer, non dovrebbe esserne sorpreso. Non è forse vero – e l’abbiamo appreso dalla Riforma e da Barth – che il Dio di Gesù Cristo non ha nulla a che fare con quello che noi potremmo pensare come Dio? E tuttavia il cristiano resta sorpreso. Egli crede che ascoltando la sentenza « Dio è morto» sia pronunciata la sua condanna. Perché? Perché non ha osato riconoscere l’essenziale, che tutto ciò che conosciamo di Dio è la sua debolezza nella croce. Noi possiamo pensare la potenza di Dio solo attraverso la parola che trasforma la sconfitta della croce in vita umana, in vita tout court.
Ma questa parola di vita non può essere eretta in metafisica della onnipotenza, poiché esiste solo se essa è predicata e se apre alla vita, se dona la vita. […] Qui, a mio parere, si incontrano, si incrociano e in un certo modo diventano indiscernibili, la fede e l’ateismo. Penso che noi stiamo andando verso un tempo ove la fede e l’ateismo non saranno più due mondi, né due specie d’uomo, ma produrranno questa cosa nuova: la fede nell’ateismo del Dio metafisico. L’ateismo di Marx, quello di Nietzsche e quello di Freud rappresentano la morte del Dio metafisico e morale. Noi dobbiamo prendere sul serio quel grande processo culturale che Nietzsche ha chiamato il nichilismo. Ma questo nichilismo è lo stesso grande movimento del far “piazza pulita” di cui parla qui Bonhoeffer. Ancora una volta dobbiamo ricordare che Bonhoeffer mentre scrive queste cose è in prigione, isolato da tutto, messo davanti alle possibilità radicali dell’uomo e in confronto con altri uomini in procinto di morire. È in questa situazione che ha avuto il coraggio di pensare fino in fondo questa idea.
Forse per molto tempo sarà assolutamente indiscernibile questo intrecciarsi di una fede problematica e di un ateismo divenuto esso stesso problematico, invece di essere dogmatico, di essere un ateismo tranquillo. Il nostro tempo è indubbiamente quello ove l’insieme degli uomini è in relazione con Dio attraverso il suo silenzio e la sua assenza. Ma non è nei Salmi (35[34], 17) che viene affermato: « Fino a quando, o Signore, starai a guardare? ». Non è Gesù sulla croce che grida: « Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34; Mt 27,46). Se prendo in considerazione tutta questa cultura moderna – abitata, oserei dire, dall’assenza di Dio –, allora posso capire il detto « Dio è morto» non come una affermazione di ateismo trionfante, ma come l’espressione moderna, che pervade tutta una cultura, di ciò che i mistici avevano chiamato «la notte dell’intelletto». « Dio è morto» non è la stessa cosa di « Dio non esiste»: è il contrario. Ovvero: il Dio della religione, della metafisica e della soggettività è morto. Il posto è vuoto per la predicazione della croce e per il Dio di Gesù Cristo.





