
L’arte come incontro e promessa di un di più
14 Dicembre 2025
Big Star – September Gurls
14 Dicembre 2025SPETTATORI PER UNA SETTIMANA
NUOVO CINEMA MANCUSO
Gli spettatori suggeriscono
Tutto pare tranquillo, dopo il terremoto di venerdì scorso. Netflix si compra Warner, è stato annunciato. Il successivo lunedì, un altro annuncio: sarà Paramount a comprarsi Warner, con un’offerta rivolta direttamente agli azionisti. Analisi, appello all’antitrust, forse interverrà Donald Trump di persona personalmente. I produttori tremano e sono contrari, ma pochissimi osano esprimersi. Grande è il disordine sotto il cielo. Noi timidamente avanziamo una modesta richiesta. Esprimiamo un desiderio, e magari chissà, anche un disinteressato consiglio da spettatori più che esperti.
Non siamo contrari per principio a Netflix – l’abbiamo vista crescere. Né per principio siamo favorevoli a Paramount che esisteva da quasi un secolo, quando abbiamo cominciato a vedere film in quantità. Servirebbero però certi punti fermi. Confini invalicabili che ora passiamo a illustrare.
Esemplare è la parabola di Noah Baumbach, partito con bellissimi film a budget limitato. Su Netflix fin dall’anno del Grande Litigio con il Festival di Cannes. Correva l’anno 2017. Fu allora che il direttore Thierry Frémaux decise di escludere dai premi importanti film che non prevedevano l’uscita in sala. I distributori francesi compatti applaudirono, e il direttore del Festival abbozzò. La Mostra di Venezia tra i due litiganti ebbe il suo bel tornaconto. Nel 2018 “Roma” di Alfonso Cuarón, prodotto da Netflix, vinse il Leone d’oro e poi tre premi Oscar.
Ma era di Noah Baumbach che volevamo parlare. Dopo “Meyerowitz Story”, al Festival di Cannes quell’anno fatidico, ha diretto “Marriage Story” con Adam Driver, poi “White Noise”. Ha sposato la fidanzata Greta Gerwig, che intanto aveva sbancato i botteghini con “Barbie”. E anche Baumbach, prodotto da Netflix che non bada granché alla durata dei film (tanto uno sta sul divano di casa, e può mettere in pausa) ha perso il dono della sintesi.
Sicuro, non è che un regista può continuare a girare “Frances Ha”: costato 3 milioni di dollari, ne ha incassati 11. Da qui il gran passo, con “Jay Kelly”: un film che sfrutta il narcisismo e la piacioneria di George Clooney. E che – peggio – all’attore consente tutto. Anche una corsa nei campi senza fiatone per ricuperare una borsa rubata, su un treno italiano. Parte del film è ambientato a Pienza, dove il nostro va per un premio. Da qui la battuta già celebre: “Solo in Italia si possono premiare due attori bianchi di mezza età” (e la mezza età dura fino ai 64 anni di Clooney).
Netflix o Paramount non cambia molto. Sono i film ruffiani come “Jay Kelly” che non vorremmo vedere mai più. Servono sceneggiature migliori. E bravi – leggi: coraggiosi e spietati – “script doctor” capaci di editarle. Togliendo lungaggini, cadute di ritmo, e varie vanità.
UN INVERNO IN COREA
di Koya Kamura, con Roschdy Zem, Bella Kim, Park My-hyeon,Ryu Tae-ho
La
Corea non è solo “Squid Game”. Può avere i tempi dilatati di questa cittadina a qualche chilometro dal confine con la Corea del nord. Vedremo i protagonisti che si dirigono verso la zona demilitarizzata, un pomeriggio in gita. Siamo a Sokcho, sotto la neve e con le strade ghiacciate. Alla Blue House, vecchia e male in arnese pensione per turisti, lavora Soo-ha: impiego temporaneo per riuscire a pagarsi gli studi di letteratura a Seul. Studia Jane Austen, già non sentite un campanello nella testa? La ragazza ha un fidanzato, tale Jun-Oh, che vuol diventare fotomodello e ora è impegnato in certi provini a Seul. Conduce una vita monotona, massimo svago la pescheria, alla pensione fa le pulizie e cucina. Sa il francese, quindi accoglie il fascinoso forestiero – ma non aspettatevi torridi amplessi o carni scoperte, siamo in Corea: un illustratore francese in cerca di ispirazione. Per inciso, il secondo illustratore della settimana cinematografica: l’altro è “L’ombra del corvo”, di Dylan Southern, qui a fianco. Arriva l’attore francese, marocchino di origine, Roschdy Zem, svettante nel suo metro e 84. Cerca un alloggio, lo trova nell’alberghetto dove Soo-ha lavora. Il padre della ragazza – un uomo francese, altro non si sa – ha fatto perdere le sue tracce quando lei era piccola, la madre si è sempre rifiutata di cercarlo. Da un premiato romanzo di Elisa Shua Dusapin, che oggi vive in Svizzera. Animazioni di Agnès Patron.
L’OMBRA DEL CORVO
di Dylan Southern, con Benedict Cumberbatch, David Thewlis, Jessie Cave
Il
dolore è una cosa con le piume” era un romanzo di Max Porter. Opera prima, premiatissima e celebrata. A memoria, uno dei titoli più chiacchierati del 2016. Impossibile farlo diventare un film, avevamo pensato. Il regista Dylan Southern, con sprezzo del pericolo, ci ha provato. Il risultato non è del tutto riuscito, ma se vi piacciono le imprese impossibili, o magari non avete letto il romanzo e quindi non avete pregiudizi, “L’ombra del corvo” è perlomeno curioso. Retroscena poetico-mortuario. Emily Dickinson aveva scritto che “La speranza è una cosa con le piume”. Ma nel romanzo, e poi nel film, viene citato anche “Corvo” di Ted Hughes, scritto negli anni 60 dopo il suicidio della moglie Sylvia Plath, e quando anche la seconda compagna si era suicidata. Da qui il titolo del libro di Max Porter (edito da Guanda) che della poesia di Ted Hughes è grande ammiratore. Veniamo al film, ribattezzato “L’ombra del corvo” per pietà verso lo spettatore non pratico di poesia. Una giovane donna muore (e qui entrerebbe un altro Corvo, firmato Edgar Allan Poe), lascia il marito e due figli ragazzini. “Serve tempo per elaborare il lutto”, dicono amici e conoscenti. Interviene la voce del padre: “Avevamo bisogno di detersivo, shampoo contro i pidocchi, figurine di calciatori, archi, frecce”. Il genitore disegna e dipinge, deve illustrare il Corvo di Poe. Si ritrova in casa – o soltanto lo immagina? – un uccellaccio puzzolente e piuttosto sgarbato.
GIOIA MIA
di Margherita Spampinato, con Aurora Quattrocchi, Marco Fiore, Martina Ziami
Dedicato
a chi ha trascorso almeno qualche settimana o qualche mese con “i parenti di giù”. Non c’erano i cellulari allora, ma certe cose sono eterne. Le persiane chiuse di giorno per non fare entrare il caldo (che così non entrava, ma neanche c’era la consolazione di un filo d’aria). La dormita coatta di pomeriggio, a letto con il pigiama. Cibi esotici, in quantità più che abbondanti. Una noia che prendeva alla gola – almeno qui c’è il mare, ma secondo gli usi e costumi degli indigeni ci si va a orari precisi, con ombrellone, sdraio, e soprattutto molto cibo (serve per ridurre ancora di più gli orari consentiti per divertirsi in acqua). Chi non ha fatto l’esperienza godrà lo stesso: Margherita Spampinato, che ha scritto e diretto il film, è molto brava a rendere l’atmosfera delle estati al sud. La piazza, la messa, il crocchio delle signore che spettegolano. Qui ci sono anche gli spiriti: stanno al piano di sopra, nell’appartamento disabitato, e fanno impazzire il decrepito carlino in casa della zia. Piuttosto male in arnese, quando non sente gli spiriti e ringhia cade addormentato. Le case vuote sono un meraviglioso parco giochi, e certe scarole che è proibito toccare ancora di più. Premio speciale del pubblico al Festival di Locarno, auguriamo buoni incassi e una bella carriera, difficile vedere un’opera prima che fila via senza intoppi né messaggi. Viva l’elogio della caponatina che cura i dolori.
VITA PRIVATA
di Rebecca Zlotowski, con Jodie Foster, Daniel Auteuil, Virginie Efira, Mathieu Amalric
Jodie
Foster recita in francese, che parla bene perché la mamma – oltre a avviarla alla carriera di modella pubblicitaria e poi di attrice – ha tenuto a farle frequentare le scuole. A Cannes, quando presentarono “Taxi Driver”, era l’unica che parlava con la stampa senza interprete (lo ricorda, ancora con un certo stupore, Martin Scorsese nel documentario di Rebecca Miller; se ancora non l’avete visto, è ottimo per le feste). Giornataccia: un paziente si è stufato, dopo anni di analisti decide di andare dall’ipnotista, e smette di fumare all’istante. Una paziente ritardataria è in verità defunta. In famiglia le cose non vanno meglio: è separata dal marito Daniel Auteuil e trova ogni scusa per non fare le coccole al nipotino appena nato. La paziente defunta è ebrea, il rito prevede gli specchi oscurati per sette giorni (e altre regole, più complicate). Incuriosita, la strizzacervelli va in visita dall’ipnotizzatrice bionda e procace, che subito enuncia il motto della casa “Preferisco che la gente guarisca in fretta” (spiegazione perfida: “l’ipnosi guariva troppo veloce, ecco perché Freud l’ha abbandonata”. L’ipnosi fa sprofondare Jodie Foster nelle profondità dell’inconscio: scale da scendere, porte da aprire, facce note in posti assurdi. Si rifà vivo il marito Daniel Auteuil, insieme pedinano e indagano. Dettaglio cinefilo: il supervisore con le orecchie a sventola è il documentarista Frederick Wiseman.





