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L’accordo raggiunto nella notte al Consiglio europeo sull’Ucraina segna un passaggio politicamente rilevante, meno spettacolare di quanto annunciato nelle settimane precedenti, ma tutt’altro che neutro. L’Unione europea garantirà a Kiev fino a 90 miliardi di euro nel biennio 2026–2027 attraverso un prestito comune emesso sui mercati e garantito dal bilancio Ue. Salta invece, almeno per ora, l’uso diretto degli asset russi congelati. È un compromesso che tiene insieme urgenza finanziaria, divisioni politiche interne e timori giuridici, rinviando lo scontro più delicato con la Russia.
La scelta risponde a una necessità immediata: assicurare risorse certe all’Ucraina in una fase in cui la guerra continua e il sostegno americano è reso più incerto dal nuovo quadro politico internazionale. Il prestito comune consente all’Unione di agire rapidamente senza entrare in un terreno legale instabile. I fondi verranno raccolti tramite bond europei e garantiti dal margine di manovra del bilancio 2021–2027, evitando un impatto diretto sui bilanci nazionali di alcuni Paesi contrari, grazie a meccanismi di cooperazione rafforzata e opt-out.
Il punto politicamente più sensibile – l’utilizzo dei beni della Banca centrale russa immobilizzati nell’Ue – viene invece rinviato. Nella dichiarazione adottata da venticinque Paesi resta l’impegno a “continuare il lavoro tecnico e giuridico” su un prestito di riparazione basato sugli asset russi, ma senza scadenze né automatismi. È una formula che tiene aperta la porta, ma segnala chiaramente che oggi non ci sono le condizioni politiche per fare quel passo.
Dietro il compromesso pesa soprattutto il nodo belga. A Bruxelles, attraverso Euroclear, sono custoditi circa 185 dei 210 miliardi di euro di asset russi congelati nell’Unione. Il Belgio ha chiesto garanzie illimitate nel tempo e nell’importo per coprire eventuali ritorsioni legali di Mosca, una richiesta che altri Stati hanno giudicato impraticabile sul piano politico e parlamentare. Anche l’Italia ha espresso da subito forti riserve giuridiche e politiche sull’operazione.
In questo quadro, Giorgia Meloni esce soddisfatta dal vertice. Rivendica una soluzione “di buon senso”, solida dal punto di vista legale e finanziario, e capace di evitare forzature che avrebbero potuto spaccare l’Unione. Insieme al premier belga De Wever e a Viktor Orbán, l’Italia ha contribuito a spostare l’asse della decisione verso una linea più prudente. La Germania, che aveva puntato tutto sugli asset russi, salva solo in parte la faccia: il cancelliere Merz parla di successo europeo, ma la sua strategia è stata di fatto ridimensionata.
Dal punto di vista russo, l’esito è ambiguo. Mosca evita per ora il precedente più pericoloso – la confisca o l’uso diretto dei propri beni sovrani – ma non ottiene alcuna normalizzazione. Gli asset restano congelati a tempo indeterminato e l’Ue si riserva di tornare sulla questione. Orbán può rivendicare di aver difeso una linea meno conflittuale, ma l’isolamento politico dell’Ungheria sul dossier Ucraina resta evidente.
Il messaggio politico che esce da Bruxelles è chiaro: l’Europa continua a sostenere l’Ucraina, ma lo fa scegliendo la via dell’unità e della sostenibilità giuridica, non quella dello strappo. È una decisione che compra tempo, rinvia lo scontro più duro con la Russia e mostra i limiti – ma anche la resilienza – dell’Unione in un contesto internazionale sempre più instabile. In altre parole: soldi oggi, diritto e politica domani.





