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21 Dicembre 2025
A 329 giorni dal ritorno di Donald Trump sulla scena centrale, la politica globale sembra ormai orbitare attorno a un unico asse. Lo certifica il New York Times, che dedica un lungo conteggio ossessivo – “Trump, Trump, Trump” – a una presenza che non è solo mediatica, ma strutturale. Trump non occupa lo spazio pubblico: lo satura. E, come osserva Peter Baker sullo stesso quotidiano, porta la “presidenza imperiale” a un livello inedito, svuotando i contrappesi, piegando le istituzioni, trasformando l’eccezione in regola. Non è solo un presidente forte: è un presidente che agisce come se il limite non esistesse più.
Questa mutazione del potere americano produce imitazione, successione, radicalizzazione. In Francia Le Monde apre su J. D. Vance, che a Phoenix si presenta apertamente come erede politico di Trump, rivendicando un nazionalismo religioso senza ambiguità: “Il cristianesimo è la fede dell’America”. Non è una semplice strizzata d’occhio all’elettorato conservatore, ma la costruzione ideologica di un’America confessionale, dove identità nazionale e fede diventano un’unica cosa. La religione, da collante sociale, si fa strumento di esclusione e di potere.
Intanto l’Europa resta intrappolata nella guerra. Le Figaro racconta le esitazioni di Emmanuel Macron, che valuta un nuovo contatto con Vladimir Putin. È il segno di una stanchezza strategica: l’Ucraina resta un conflitto aperto, senza sbocchi chiari, mentre le capitali europee oscillano tra fermezza dichiarata e realismo diplomatico. Sul fronte nord, la Svezia ferma una nave russa sanzionata sospettata di traffico d’armi, come riporta il Financial Times: il Mar Baltico diventa un nuovo spazio di frizione, dove la guerra si allarga senza dichiararsi.
Dall’altra parte dell’Atlantico, gli Stati Uniti inseguono un’altra petroliera venezuelana, nel quadro del blocco rafforzato voluto da Trump. Il mare, ancora una volta, come luogo della pressione geopolitica: sanzioni, interdizioni, inseguimenti navali. È una guerra a bassa intensità, ma permanente, che normalizza l’idea di conflitto continuo come strumento di governo.
In Medio Oriente la spirale è ormai fuori controllo. Israele approva 19 nuovi insediamenti in Cisgiordania, mentre il capo di stato maggiore evoca apertamente un possibile nuovo attacco all’Iran. Da Teheran, il Tehran Times risponde con toni brutali: “Il cane rabbioso torna ad abbaiare”. La retorica precede sempre la violenza, la prepara, la giustifica. Qui il linguaggio non accompagna la guerra: la annuncia.
Neppure le democrazie lontane sono immuni. In Australia, durante una commemorazione per le vittime della strage antisemita di Bondi Beach, il primo ministro viene accusato pubblicamente di avere “le mani sporche di sangue”. Il trauma collettivo si trasforma in scontro politico, la memoria in arma.
Infine, la Spagna. In Estremadura la destra travolge i socialisti di Sánchez. El País parla di disfatta, ABC esulta per una “vittoria storica”. Avanza Vox, si radicalizza il discorso pubblico, si indebolisce il centro. È un copione già visto: crisi sociale, paura, identità, autorità.
Mettendo insieme questi frammenti, il quadro è chiaro. Non viviamo una somma di crisi, ma una convergenza. Il modello trumpiano – potere personale, nazionalismo identitario, disprezzo dei limiti, uso permanente del conflitto – non resta confinato agli Stati Uniti. Si diffonde, si adatta, trova interpreti locali. Il mondo entra così in una fase nuova, dove la forza conta più delle regole e la fede più dei diritti. E dove la domanda decisiva non è più chi governa, ma fino a dove può spingersi senza essere fermato.





