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Di Pierluigi Piccini
Ci sono stagioni che non tornano, ma continuano a battere sotto la pelle della città. Gli anni Novanta, a Siena, sono stati questo: un tempo in cui il passato non era una rendita, ma una responsabilità; un tempo in cui il Santa Maria della Scala non era ancora un museo compiuto, ma un organismo vivo, attraversato da studio, polvere, intelligenza, passione. Chi entrava allora nel complesso non aveva l’impressione di visitare un’istituzione culturale, ma di mettere piede in un cantiere civile. Si scavava, si discuteva, si imparava. Archeologi chini sul terreno, architetti che leggevano i muri come si leggono i volti, restauratori al lavoro sotto gli occhi dei cittadini. Siena respirava, e lo faceva a un ritmo europeo. L’archeologia non era una disciplina distante, ma una rivelazione continua. Le stratificazioni del sottosuolo e delle murature restituivano una città complessa, ferita, trasformata. Attorno a Riccardo Francovich lavorava una comunità vera, fatta di studiosi giovani e meno giovani, pagati, rispettati, coinvolti. Anche questo, allora, faceva la differenza. Il Santa Maria della Scala insegnava che la cultura è un fatto collettivo. Lo dimostrava anche la qualità del comitato scientifico: la direttrice del Museo Poldi Pezzoli, il direttore dell’Accademia di Dresda – che avrebbe poi guidato la ricostruzione della Frauenkirche -, la direttrice dei musei parigini, studiosi formati alla scuola di Paul Philippot e dell’Iccrom. Non presenze di facciata, ma interlocutori reali, coinvolti in un confronto serrato sul senso del restauro, della museografia, del rapporto tra tutela e contemporaneità. Siena non chiedeva legittimazioni: le esercitava. Il progetto architettonico di Guido Canali seguiva la stessa logica. Un lavoro di ascolto più che di imposizione. Le demolizioni liberavano colonne, archi, spazi soffocati da interventi frettolosi. Era come togliere bende, restituire respiro. Il cantiere diventava un luogo pubblico, osservabile, discusso. La città era chiamata a capire, a partecipare. Nel 1999 la scoperta della Tebaide, murata da secoli, fu uno di quei momenti in cui il tempo sembra fermarsi. Non solo una scoperta capitale per la storia dell’arte senese, ma la conferma che quel luogo aveva ancora qualcosa da dire, se lo si sapeva ascoltare. Intanto Siena era attraversata dai grandi maestri dell’architettura contemporanea. L’Ilaud di Giancarlo De Carlo trasformava ogni estate la città in un laboratorio internazionale. Renzo Piano, Ernesto Nathan Rogers, Gae Aulenti, Alvaro Siza non venivano a celebrare Siena, ma a usarla come terreno critico, come banco di prova. La stessa idea di condivisione guidò il restauro del rosone di Duccio: un laboratorio aperto, visibile, comprensibile. La bellezza non come miracolo astratto, ma come risultato di competenza, cura, responsabilità. In quegli anni arrivarono a Siena figure come Licisco Magagnato, Theo Antoine Hermanes e Jack Lang. Quando il ministro della Cultura di François Mitterrand visitò il Santa Maria della Scala, fu chiaro che non si trattava di cortesia istituzionale: quel progetto parlava la lingua dell’Europa più attenta, più esigente. Quella stagione è rimasta incompiuta, ed è giusto dirlo. Ma ciò che ha lasciato non è andato perduto. È rimasto come misura. Come parametro. Come memoria attiva. Ha insegnato che la cultura non è gestione ordinaria, ma scelta; non è ornamento, ma lavoro duro e condiviso. Per chi ebbe la responsabilità di guidare la città in quegli anni, fu un dono enorme. Un dono che ancora oggi pesa, nel senso più alto del termine. Perché dopo aver visto cosa può essere Siena quando osa, non ci si può più accontentare. Il cuore dell’Europa, allora, batteva anche qui. Non per caso, non per nostalgia, ma perché c’erano persone, competenze, idee, coraggio. Quel battito non tornerà uguale. Ma se sappiamo ascoltarlo, può ancora insegnarci il ritmo giusto.





