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di Alfredo Herbin
Non è una festa.
Non è una tradizione da conservare.
È un atto che accade.
La notte del 24 dicembre, ad Abbadia San Salvatore, il fuoco non viene acceso per illuminare il paese, ma per rimetterlo al mondo. Le fiaccole non decorano: fondano. Per una notte il borgo smette di essere un semplice spazio abitato e torna a essere un luogo nel senso pieno, originario.
La forza del rito non sta nella fiamma, ma nella forma che la sostiene. La fiaccola nasce da un quadrato. Una base stabile, terrestre, orientata. Il quadrato non è una scelta tecnica: è la figura minima che tiene insieme il mondo. È ciò che consente all’abitare di accadere. Sotto, nella cripta, un altro quadrato: una pietra antica, un’ara, una forma che precede ogni narrazione cristiana. Sopra, in superficie, quel quadrato si alza e brucia. La pietra non viene negata: cambia stato. La terra diventa fuoco.
Il rito vive di questa corrispondenza verticale. Sotto e sopra non si separano, si rispecchiano. Trentadue colonne nel ventre della chiesa, trentadue fiaccole nella trama del paese. La notte replica la profondità, ma la rovescia: ciò che sotto è sostegno e ombra, sopra diventa colonna di luce. Non è simbolismo: è struttura. È una geometria che non spiega, ma trattiene.
Il fuoco stesso non è allegoria. Qui il fuoco non rappresenta: agisce. Si accende nel punto più buio dell’anno, quando il tempo sembra essersi fermato. È il momento della soglia. Non per scaldare i corpi, ma per accompagnare il ritorno della luce. Un gesto che non chiede fede, ma presenza.
Questo accade su una montagna che non è neutra. Il Monte Amiata è un vulcano. Una terra che conserva il fuoco sotto la superficie. Il rito non ignora questa condizione: le risponde. Se il monte trattiene, il paese libera. Se il fuoco non erutta più dalla terra, erutta nella forma del rito. La fiaccola non imita il vulcano: lo riattiva. Una montagna di legno che brucia per ricordare che il fuoco non è scomparso, è custodito.
In quella notte agiscono anche i quattro elementi, ma senza ordine né gerarchia.
La terra è il legno del bosco, strappato al silenzio e disposto secondo misura, peso, orientamento. È ciò che regge, che accetta di consumarsi senza dissolversi.
L’acqua è ciò che non si vede: il gelo, l’umidità trattenuta, la notte d’inverno che delimita il fuoco e ne impedisce l’eccesso. Senza acqua la fiamma divorerebbe; qui, invece, dura.
L’aria è il respiro collettivo che la sostiene, il vento che può spegnerla o farla crescere, la comunità invisibile che veglia perché il fuoco non si rompa.
Il fuoco, infine, non domina gli altri elementi: li attraversa. Nasce dalla terra, vive nell’aria, misura l’acqua che manca. Non è il più alto, è il più esposto.
In quella notte tutto si raccoglie in una sola figura:
la terra del bosco,
l’aria che tiene la fiamma,
l’acqua che la trattiene,
il fuoco che consuma e apre,
il cielo che misura il tempo,
il sacro che non si lascia possedere,
i mortali che custodiscono il gesto.
Non come temi, ma come forze. Il rito le obbliga a stare insieme. Le strappa alla dispersione, all’indifferenza, all’uso. È questo che fa: raduna.
Per questo le fiaccole non sono folklore. Sono una macchina arcaica ancora funzionante. Un dispositivo che, una volta l’anno, impedisce al luogo di dissolversi. Finché quel quadrato torna a reggere il fuoco, Abbadia non è una scenografia intercambiabile. È un centro.
Un centro acceso.





