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di Pierluigi Piccini
La concordia è una parola molto usata nel linguaggio politico e istituzionale. Viene presentata come un valore positivo in sé: serve a stare insieme, a evitare divisioni, a superare i conflitti. Proprio per questo va presa sul serio e messa in discussione. Perché la concordia non è mai neutra: nasce sempre dentro un ordine preciso e spesso dice più su chi detiene il potere che su come una comunità vive davvero.
Il punto di partenza è il Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti, dipinto nella Sala dei Nove a Siena. Per secoli è stato interpretato come l’immagine ideale di una città armoniosa e ben governata, quasi un’anticipazione del bene comune moderno. Ma questa lettura è rassicurante e incompleta. Il ciclo è commissionato da un governo oligarchico che arriva dopo una fase di forti tensioni, conflitti interni e pratiche corruttive. L’affresco non descrive la realtà: costruisce un racconto utile a legittimare il potere. La città ordinata e pacificata non nasce da una reale uguaglianza, ma da una rappresentazione dell’ordine.
La concordia raffigurata non deriva dall’incontro tra cittadini realmente uguali. È piuttosto un meccanismo di allineamento. Le differenze vengono smussate, il conflitto scompare dall’immagine, la pluralità viene ricondotta a una forma accettabile. L’uguaglianza è solo formale. Il Buon Governo, quindi, non risolve i conflitti sociali: li cancella simbolicamente, trasformando la stabilità del potere in una virtù civica.
Qui il riferimento ad Antonio Gramsci è essenziale. Gramsci chiamava egemonia questo processo: il potere non si impone solo con le regole o la forza, ma costruendo consenso, senso comune, idee che appaiono naturali. La concordia funziona così. Non chiede obbedienza, ma adesione. Non reprime il conflitto, lo rende sconveniente. È il momento in cui l’ideologia smette di mostrarsi come tale e diventa “buon senso”.
Questo meccanismo non appartiene solo al Trecento. Lo ritroviamo nel linguaggio istituzionale di oggi. Nel saluto del 2025 della sindaca di Siena, Nicoletta Fabio, gli auguri assumono un tono morale. L’unità viene presentata come valore supremo, la comunità come un corpo compatto, la concordia come dovere civico. Il dissenso, anche senza essere nominato, appare come una mancanza: prima etica che politica. Non si discutono più le scelte e le loro conseguenze, ma il modo in cui ci si pone.
È uno spostamento importante. La politica esce dal terreno delle responsabilità e delle decisioni e viene trasferita su quello della morale. Chi critica non è visto come portatore di un’alternativa, ma come elemento dissonante. In questo modo la concordia non include davvero: normalizza. Non favorisce la partecipazione, ma chiede adesione.
In questo contesto anche il linguaggio ecclesiale locale si muove spesso su un registro simile, pur con intenzioni diverse. Nei richiami all’unità, alla pace sociale e al superamento delle contrapposizioni presenti nelle parole del cardinale di Siena, Augusto Paolo Lojudice, c’è una preoccupazione sincera per le fratture della società. Ma il rischio non sta nelle intenzioni, bensì negli effetti: il conflitto viene spostato sul piano morale o ideologico e perde la sua dimensione storica e politica.
Così la critica all’“ideologia” può trasformarsi in una ideologia mite. Non reprime, ma addomestica. Non impone il silenzio, ma lo rende desiderabile. È una forma di egemonia particolarmente efficace perché si presenta come cura dell’unità, non come esercizio del potere.
Paradossalmente, Lorenzetti è più onesto del presente. Accanto al Buon Governo rappresenta anche il Cattivo Governo, mostrando che l’ordine è fragile, reversibile, sempre esposto alla degenerazione. Il linguaggio contemporaneo, invece, tende a presentare la concordia come un fine assoluto, non come una costruzione storica che può e deve essere discussa.
Il punto, allora, non è rifiutare l’unità. È sottrarre la concordia all’uso ideologico. Ricordare che senza conflitto non c’è giustizia, e senza giustizia la concordia diventa solo una parola che governa invece di spiegare. Una città viva non è quella che tace, ma quella che sa reggere il dissenso senza trasformarlo in colpa.





