
Parliament – Flashlight
28 Dicembre 2025
di Pierluigi Piccini
C’è una forma di speranza che non alza la voce, non incrina gli equilibri, non forza le soglie. È una speranza che accompagna, che amministra il presente più che sfidarlo, che preferisce la misura allo strappo. Una speranza che rassicura, che ordina, che compone; ma che raramente incendia. Nell’intervista al cardinale Augusto Paolo Lojudice questa postura emerge con chiarezza: uno stile fatto di prudenza, mediazione, attenzione ai tempi e ai contesti. Uno stile che cerca coesione e stabilità, e proprio per questo apre una domanda più profonda e inquieta su che cosa significhi oggi, davvero, sperare.
Il racconto del conclave è rivelatore. Nessun dramma, nessuna frattura, nessuna tensione dichiarata. Tutto appare come un processo ordinato, quasi naturale, guidato dall’ascolto reciproco e dal senso dell’unità. Anche le differenze tra i pontificati vengono ricondotte a una linea di continuità, più che riconosciute come snodi di discontinuità reale. È una narrazione pacata, armonica, in cui ogni voce trova posto senza disturbare l’altra, come in un canone perfettamente eseguito. Ma proprio questa armonia solleva una domanda inevitabile: può bastare, oggi, l’accordo delle parti, quando il tempo è attraversato da fratture profonde, sociali, culturali, spirituali?
Leone XIV, così come emerge da questo racconto, appare innanzitutto come un elemento d’ordine. Non in senso burocratico o autoritario, ma come figura chiamata a ricomporre, stabilizzare, rassicurare. Dopo anni in cui il pontificato di Francesco ha introdotto tensioni, aperture e conflitti espliciti, dentro e fuori la Chiesa, la sua elezione sembra inscriversi in una logica di riequilibrio. L’accento non è sulla rottura, ma sulla continuità; non sulla provocazione evangelica, ma sulla tenuta dell’insieme; non sul gesto che spiazza, ma sulla parola che ricuce.
E tuttavia il confronto con Francesco resta inevitabile. Perché il suo pontificato, al di là di ogni lettura riduttiva, è stato segnato da un coraggio reale: nel linguaggio diretto, nell’assunzione del conflitto, nella critica esplicita ai poteri economici e politici, nella disponibilità a esporsi anche all’interno della Chiesa. Francesco ha accettato che la speranza potesse essere disturbante, divisiva, persino scomoda. Ha praticato una speranza che non si limita a custodire l’unità, ma la mette alla prova, nella convinzione che il Vangelo non serva a proteggere gli equilibri, bensì a giudicarli.
Lo stesso registro prudente di Leone XIV è stato ora assunto da Lojudice quando parla di Siena. Le “mura” diventano la metafora di una chiusura culturale e mentale, ma la critica resta sempre temperata, quasi trattenuta. Siena deve aprirsi, guardare oltre se stessa, accettare il confronto con il mondo; tuttavia il cambiamento è pensato come processo graduale, mai come rottura. Non c’è invettiva, non c’è conflitto nominato, non c’è un responsabile indicato. C’è piuttosto l’invito a un’evoluzione cauta, rispettosa degli equilibri esistenti.
In questa postura si riconosce la stessa logica che caratterizza Leone XIV come figura d’ordine: ricomporre, rassicurare, tenere insieme. La critica non viene mai spinta fino al punto di incrinare assetti consolidati, ma resta entro un orizzonte di moderazione e misura. È una scelta comprensibile, soprattutto in un tempo segnato da polarizzazioni e sfilacciamenti, ma che rischia di trasformare la diagnosi in semplice constatazione, la lettura in registrazione dell’esistente.
Quando il discorso si sposta sulla politica, il tono resta coerente. La disaffezione al voto viene letta come effetto di una politica ridotta a scontro e aggressività, incapace di includere. Al centro dovrebbe tornare la persona, non la poltrona. È una critica giusta, ma volutamente generale. Non distingue, non prende posizione, non entra nei rapporti di forza che producono quella stessa crisi. La politica viene richiamata a un’etica del comportamento più che interrogata come luogo del conflitto, della decisione, della responsabilità.
Anche sulle questioni più sensibili – dal fine vita alle nomine – prevale un registro istituzionale, misurato, quasi notarile. La dottrina viene riaffermata senza enfasi, la laicità dello Stato riconosciuta senza attrito, le decisioni giustificate in nome della competenza e dell’equilibrio. È una linea coerente, che privilegia la stabilità del sistema e la sua capacità di reggere nel tempo. Ma è anche una linea che rinuncia consapevolmente a ogni gesto di discontinuità.
In filigrana resta allora una domanda che non viene mai pronunciata, ma attraversa l’intervista come un’ombra sottile. Esiste una speranza che non si limiti a custodire l’esistente, ma che lo metta in crisi? Una speranza che non si accontenti di amministrare il presente, ma osi immaginare ciò che ancora non c’è? È la tensione di cui parlava Ernst Bloch, quando vedeva nella speranza non una virtù rassicurante, ma una forza inquieta, capace di incrinare l’ordine dato.
Il cardinale Lojudice appare come una figura solida, affidabile, chiamata a tenere insieme ciò che rischia di frammentarsi. In questo senso la sua postura è comprensibile, forse necessaria. Ma proprio per questo resta distante da un’idea di profezia come rottura. Leone XIV, nella lettura che emerge, sembra muoversi nello stesso orizzonte: garante dell’unità più che interprete del conflitto, custode dell’equilibrio più che voce dell’inquietudine.
E tuttavia, soprattutto in luoghi come Siena, dove il pericolo non è il disordine ma l’immobilità elegante, la domanda resta aperta. Può bastare una speranza che non osa e non scalda le anime? O prima o poi diventa necessario attraversare il conflitto che ogni vero cambiamento porta con sé? Non per distruggere ciò che esiste, ma per impedirgli di trasformarsi, lentamente, in una pura amministrazione del già dato.





