
La religione come arma geopolitica: il cattolicesimo americano tra Impero e profezia
30 Dicembre 2025
The Supremes – Stop! In The Name Of Love
30 Dicembre 2025Escalation globale e retoriche di forza: dal fronte ucraino al Medio Oriente, tra minacce, propaganda e instabilità
Le cronache internazionali delle ultime ore restituiscono un quadro compatto e inquietante: la politica globale sembra sempre più parlare il linguaggio della minaccia, della forza e della delegittimazione reciproca, mentre i conflitti aperti e latenti si intrecciano in un sistema di tensioni che va dall’Europa orientale al Medio Oriente, dal Corno d’Africa all’America Latina.
Sul fronte ucraino, il clima si è ulteriormente irrigidito dopo il presunto attacco con droni alla residenza di Vladimir Putin. Volodymyr Zelensky ha negato ogni responsabilità, sostenendo che si tratti di un pretesto costruito ad arte. Da Mosca, però, la reazione è stata brutale: Dmitrij Medvedev ha evocato per il presidente ucraino un futuro da “fuggiasco permanente”, accompagnando la minaccia con un linguaggio volutamente degradante. Anche il ministro degli Esteri Sergej Lavrov ha rilanciato, parlando apertamente di conseguenze contro Kiev. La retorica russa continua così a spostarsi dal piano diplomatico a quello della delegittimazione personale e simbolica del nemico, in una spirale che rende sempre più difficile immaginare spazi di de-escalation.
Parallelamente, il Medio Oriente e le sue periferie restano un moltiplicatore di crisi. L’Arabia Saudita ha confermato raid aerei sul porto yemenita di Mukalla, mentre la coalizione araba rivendica un’operazione “limitata” contro due navi accusate di trasportare armi di contrabbando dal porto emiratino di Fujairah verso lo Yemen. Sullo sfondo, il conflitto con gli Houthi resta aperto e si intreccia ora con nuove tensioni geopolitiche: il leader del movimento yemenita ha dichiarato che un’eventuale presenza israeliana in Somaliland diventerebbe un “obiettivo”, dopo che la Somalia ha accusato Israele di minacciare la stabilità regionale con il riconoscimento del Somaliland.
In questo scenario, Donald Trump torna a occupare il centro della scena internazionale con toni esplicitamente muscolari. Dal Golfo arriva la sua minaccia all’Iran: “li abbatteremo” se tenteranno di ricostruire il programma nucleare. Una linea ribadita anche sul piano militare-industriale, mentre il Pentagono annuncia un contratto da 8,6 miliardi di dollari con Boeing per il programma dei caccia F-15 destinati a Israele. La saldatura strategica tra Washington e Tel Aviv viene ulteriormente rafforzata sul piano simbolico dall’incontro tra Trump e Netanyahu, presentato come un fronte unito nonostante le tensioni su Gaza e sulla Siria.
Eppure, proprio in Israele, le fratture interne appaiono sempre più profonde. Il presidente Herzog ha smentito pubblicamente l’affermazione di Trump secondo cui una grazia per Netanyahu sarebbe “in arrivo”. Intanto il ministro Smotrich ha attaccato con violenza verbale il presidente della Corte Suprema, promettendo di “calpestarlo”, mentre l’Alta Corte ha bloccato la chiusura della radio dell’esercito e respinto i ricorsi contro la nomina del nuovo capo dello Shin Bet, con una dura opinione dissenziente del presidente della Corte sulla gestione etica del ruolo del premier. Il conflitto istituzionale israeliano appare così sempre più aperto, intrecciando guerra esterna e crisi dello stato di diritto.
Fuori dal Medio Oriente, il linguaggio della forza domina anche nelle Americhe. Trump ha annunciato la distruzione di un presunto impianto di produzione di droga in Venezuela, mentre Nicolás Maduro ha risposto ribadendo la narrazione “antimperialista”, definendo i militari venezuelani “emancipatori e liberatori”. Caracas ha inoltre condannato la decisione statunitense di procedere con vendite di armi su larga scala a Taiwan, segno di un allineamento retorico e politico con Pechino nella competizione globale.
In America Latina emerge intanto un’altra forma di violenza, meno geopolitica ma altrettanto destabilizzante: in Ecuador il calcio è diventato bersaglio diretto delle mafie. Cinque giocatori sono stati uccisi nel solo 2025, ultimo dei quali Mario Pineida. Il legame tra criminalità organizzata, scommesse e sport mostra come l’insicurezza non sia più solo una questione militare, ma un fenomeno sociale strutturale che attraversa istituzioni e immaginari popolari.
Sul versante tecnologico e simbolico, lo sport globale guarda invece all’intelligenza artificiale come nuovo terreno di competizione: secondo le stime, nel 2026 gli investimenti in IA applicata a performance, scouting e prevenzione degli infortuni toccheranno i 7 miliardi di euro. Un contrasto netto con le aree del mondo dove lo sport diventa invece teatro di violenza e controllo criminale.
Infine, nei Balcani, il partito al governo in Kosovo rivendica una vittoria netta nelle elezioni anticipate, consolidando il proprio potere in una regione ancora fragile, dove ogni passaggio elettorale ha inevitabili riflessi geopolitici.
Nel loro insieme, queste notizie disegnano un sistema internazionale attraversato da una stessa logica: l’uso della forza – militare, verbale, simbolica o tecnologica – come strumento primario di legittimazione politica. Le diplomazie appaiono subordinate alla propaganda, le istituzioni sotto pressione, e i conflitti sempre più interconnessi. Un mondo in cui la soglia tra deterrenza e provocazione si assottiglia, e in cui la stabilità sembra dipendere sempre meno dal diritto e sempre più dal rapporto di forza.





