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9 Ottobre 2022Setsuko La cerimonia del tempo
9 Ottobre 2022
Cristina Taglietti
Gli autori
Louis-Ferdinand Céline è il nome d’arte di Louis- Ferdinand Destouches (Courbevoie, 27 maggio 1894-Meudon, 1º luglio 1961): Céline era il nome della nonna. Per l’accusa
di antisemitismo e collaborazionismo lo scrittore fuggì dalla Francia e visse tra miseria e prigione in Danimarca fino al 1951. Marcel Proust (Parigi, 10 luglio 1871-18 novembre 1922) passò l’infanzia nella proprietà di famiglia a Illiers, che ora si chiama Illiers-Combray in omaggio alla Recherche. Fin da giovane frequentò i salotti letterari
Lo scrittore alto-borghese, ebreo, mondano, omosessuale e il figlio di piccoli commercianti, cattolico, antisemita, omofobo: Marcel Proust (il 18 novembre saranno cent’ann dalla morte) e Louis-Ferdinand Céline sono apparentemente agli antipodi, nemici per la pelle a partire dalla biografia, eppure sconvolgono, allo stesso modo, la letteratura francese del Novecento. A loro Valerio Magrelli ha dedicato un agile saggio, L’odio e la mente («un kit da passeggiata», lo definisce), mentre Alessandro Piperno, come Magrelli scrittore e francesista, in un capitolo di Proust senza tempo, analizza il rapporto tra i due andando Alla radice dell’antisemitismo. Con «la Lettura» Magrelli e Piperno ripercorrono l’odio di Céline verso Proust, il terreno su cui i dioscuri si scontrano e, forse, s’incontrano.
Il primo aspetto che Proust e Céline condividono è, su un piano molto generale, il fatto che rappresentano, per la letteratura, una rivoluzione.
ALESSANDRO PIPERNO — Sono due rivoluzioni per certi versi antitetiche. Per Proust vale, anche se invertita, la battuta fatta su Richard Wagner: «Un bel tramonto scambiato per un’alba». Proust fu un’alba scambiata per tramonto. Quando la Recherche uscì, suscitò, insieme a molti consensi, parecchie perplessità, come ricorda Antoine Compagnon nel suo bel libro Proust tra due secoli. Proust fu molto osteggiato prima dagli intellettuali più avanguardistici, poi da una certa intellettualità progressista perché appariva come un autore reazionario che parlava di contesse, che usava uno stile aristocratico, al punto tale che, quando vinse il Goncourt, tutti lo indicarono come il classico rappresentante dell’establishment. Ciò di cui pochi si resero conto era che invece era il più rivoluzionario di tutti. Compagnon dice che passò da uno stato di rivoluzionario a uno stato di classico, quasi senza soluzione di continuità. Addirittura Proust ha vissuto quasi un periodo di rifiuto alla fine degli anni Quaranta del Novecento perché veniva percepito come qualcosa di vecchio, con un arsenale letterario vetero-ottocentesco. Il caso di Céline mi pare, Valerio correggimi se sbaglio, l’esatto contrario: a un certo punto irrompe questo strano individuo sociopatico che stravolge qualsiasi stilema che la narrativa fino a quel momento avesse mai praticato. Céline, per trovare un suo antesignano, deve risalire fino al Medioevo, a Villon, tanto tutto ciò che lo precede gli sembra obsoleto. Insomma Proust entra subito nell’establishment, l’altro entra subito come anti-establishment e tali resteranno per sempre.
VALERIO MAGRELLI — Per me è stato molto importante il libro di Jean-Louis Cornille La haine des lettres («L’odio delle lettere») che affronta di petto il complesso di inferiorità nutrito da Céline nei confronti di Proust. L’autore della Recherche l’ha preceduto non solo nel successo ma anche nell’insuccesso. Cornille fa notare come il rifiuto del manoscritto di Proust da parte di Gallimard, si dice addirittura da parte di André Gide, anticipi quello che poi accadrà con il manoscritto di Céline. Quindi dici bene Alessandro che in qualche misura la strada di Céline è stata opposta. Il primo libro del 1932, Viaggio al termine della notte, viene acclamato proprio dalla sinistra, mentre a partire da Morte a credito, a mio parere il più alto della sua produzione, e poi con i pamphlet, si scava un abisso tra la sinistra e Céline. La questione del collaborazionismo va ancora precisata, c’è chi l’ha additato come rappresentante del nazismo internazionale, ma è la cosa che a me interessa meno.
Lei nota che fino al 1979 non c’è un confronto diretto Proust-Céline da parte degli studiosi nonostante le allusioni proustiane nel testo di Céline. Fu Serge Gawronsky a porre la questione: secondo lui i loro testi «si ingranano uno sull’altro».
VALERIO MAGRELLI — Sì, il confronto arriva sorprendentemente in ritardo, almeno in maniera sistematica ed esplicita. Un primo accostamento tra i due venne avanzato già nel 1932 da Léon Daudet, che cercò invano di fare assegnare a Céline il Goncourt che era riuscito a fare ottenere a Proust. Per me tutto parte da quell’esclamazione splendida di Claude Lévi-Strauss: «Proust e Céline: ecco la mia inesauribile felicità di lettore». È un testo di quasi un secolo fa che aveva buttato il sasso nello stagno, però ci sono voluti almeno quarant’anni prima che venisse messo al centro del dibattito critico.
Un tema su cui si possono mettere a confronto è quello dell’odio. Céline è un odiatore efferato. Magrelli nel suo libro scrive che questo sentimento a Proust era sostanzialmente estraneo.
ALESSANDRO PIPERNO — Io mi permetto di dissentire: se Proust odiasse non lo so, ma anche dall’epistolario emergono antipatie e risentimenti che si avvicinano molto all’odio, forse più elegante rispetto a Céline. Però mi sembra che, e tu lo adombri nel libro, in realtà la Recherche sia attraversata dall’odio. A cominciare da quella scena del Tempo ritrovato in cui il narratore si scaglia contro un mondano, M. d’Argencourt, che accusa di essere suo rivale non si sa bene in che cosa, e gode che sia stato distrutto. Godere della distruzione altrui è proprio celiniano. E poi i rapporti amorosi che il narratore intrattiene sono tutti decisi da un sentimento molto più vicino all’odio che all’amore. Per esempio quando dice di Albertine che lui la possedeva sessualmente solo per la soddisfazione che gli altri non la possedessero.
George Steiner scrive che in un gruppo ristretto di maestri — Giovenale, Jonathan Swift, Céline — «una misantropia furiosa, una nausea contro il mondo, danno luogo a progetti di notevoli proporzioni». La monotonia del disgusto diventa sinfonica.
ALESSANDRO PIPERNO — Tu Valerio hai scritto anche un libro sull’odio, sentimento fondamentale, nutritivo. Io stesso nel mio piccolo non potrei scrivere narrativa se non fossi animato da odi profondi. Mi pare che Proust sia un grande odiatore. Anche la messa in scena della società è sarcastica, odiosa. Cosa ne pensi?
VALERIO MAGRELLI — La tua obiezione è giusta, entrambi odiano, anche se in modo diverso. In Proust l’odio è un ingrediente, in Céline è il combustibile, la benzina. Allargando il discorso, io vedo in Proust un autore polifonico, in Céline un autore monodico. Céline è un solista, mi viene sempre in mente la chitarra di Jimi Hendrix con quelle svisate formidabili. In Proust hai veramente un organico di cento elementi. Questo è il motivo per cui ho pensato al sottotitolo L’odio e la mente. L’odio in Proust diventa esplicito, e questo lo dice molto bene Carlo Bo, negli esercizi mimetici dei Pastiche in cui l’autore riscrive un fatto di cronaca alla maniera di Honoré de Balzac, Gustave Flaubert, Charles Sainte-Beuve e altri. Carlo Bo dice che per Proust l’uccisione dei padri simbolici passa attraverso la loro parodia.
ALESSANDRO PIPERNO — Nell’ultimo Céline, quello della Trilogia del Nord, tutto quell’odio è genuino? Perché ho la sensazione che il Viaggio e Morte a credito compongano una sorta di grande Recherche, se così si può dire. In quello che viene dopo, pur con cose bellissime, però ho la sensazione che lo psicopatico e lo stilista prendano il sopravvento sullo scrittore genuino.
VALERIO MAGRELLI — È difficile distinguere tra genuino e sociopatico. Quello di Céline è un lavoro alla Giorgio Morandi, le infinite bottiglie replicate con sapienza suprema, ma è monodico e monocorde. Però lui in questo trova una grandezza che nel momento in cui stai per lasciare la pagina ti afferra. Mi fa pensare quasi a tecniche al limite dell’astrazione, come il frottage. Perché c’è qualcosa che disgrega la sintassi, i punti di sospensione: quello è davvero un lavoro supremo che viene dritto dritto da Stéphane Mallarmé, perché mettere le mani sugli snodi logici del discorso, cosa che fa anche Proust a suo modo, come i bianchi che riempiono la pagina, fa capire quanto fosse ossessivo. Per lui aggiungerei una parola della stessa famiglia — monomaniacale — per il lavoro sulla lingua, estenuata, tirata, lacerata.
La centralità dello stile, uno stile agli antipodi, è la cosa più evidente che hanno in comune.
ALESSANDRO PIPERNO — Io non sono uno specialista di Céline ma credo di avere letto tutto e direi che Céline nasce Céline. Il suo stile ha una fortissima immediatezza, da stilista e merlettaio quali erano i suoi genitori, come tu, Valerio, metti in evidenza. E però passa attraverso una voce che mescola turpiloquio, argot, ma anche parole forbite ed erudite. Una mescolanza affascinante che tiene sempre conto della musica, che è poi ciò che lo unisce a Proust. Quella carica così immediata di esperienza che la vita gli ha regalato — la miseria piccolo-borghese, la guerra, la medicina — si incarna in uno stile che ha una sua genuinità. Il discorso su Proust è più lungo e complesso, mi limiterei a dire non solo che Proust raggiunge tardi il suo stile ma che uno dei temi della Recherche è come si raggiunge uno stile. Recentemente sono andato a rivedermi Jean Santeuil, suo primo tentativo romanzesco, molto poco proustiano nello stile, molto legato a un contesto iper-ottocentesco. Dentro ci sono Guy de Maupassant, Anatole France. Proust trova il suo stile passando attraverso varie tappe, nessuna delle quali ha a che fare con la narrativa. La prima è la scoperta della traduzione, con i testi di John Ruskin a cui fa anche bellissime prefazioni. Poi passa attraverso i Pastiches, quando si rende conto che l’unico modo per uscire da una tradizione che lo opprime è prendere per i fondelli i suoi amati scrittori e passare oltre, e poi attraverso la saggistica. Proust, come tutti gli ipocriti, era straordinariamente mimetico (pare anche molto divertente nelle imitazioni), e questo mimetismo lo ritrovi nella Recherche dove ogni personaggio parla in modo diverso. Una qualità ma anche un limite. In una lettera scritta quando lavora ai Cahiers, cioè all’infanzia della Recherche, dice che uno scrittore per trovare il suo stile deve pensare a un timbro, a una musica. Il suo è legato più alla musica e alla pittura che alla prosa, è assoluta emozione. Ha una scrittura distesa, piena di incisi, una specie di canto delle sirene che spesso il lettore non comprende fino in fondo ma che lo ipnotizza. Ho la sensazione che sia il suono più simile alla nostra vita interiore. Una volta che i fortunati riescono a entrare non ne escono più.
VALERIO MAGRELLI — Paragonando musica e stile, Céline dice: prendete Shakespeare, è tre quarti di flauto e un quarto di sangue. Questa idea di mettere insieme il flauto e il sangue, beh, devi essere Céline per elaborarla. È bello quello che tu scrivi: che malgrado la difficoltà delle grandi architetture e delle ampie ipotassi, nella Recherche ti ci sei trovato immediatamente. Io sottolineerei la parte di Proust saggista: è stupefacente la libertà con cui si mette di fronte a questi autori, li presenta. Da questo punto di vista non ci potrebbe essere maggiore diversità con Céline, che non ha mai scritto critica letteraria e quando lo ha fatto lo ha fatto per spiegare la propria opera. Il famoso saggio su Rabelais gli serve per spiegare come la lingua francese dopo Villon sia un campo desolato, che risorge solo con lui. Il risultato dei suoi sforzi è un francese unico: alterato, travisato, sfigurato, frutto di crudeltà meticolosa, di feroce sapienza, di estenuato perfezionismo. Uno dei libri che io più amo di Céline e di cui faccio abbondante uso nel mio libretto è Colloqui con il professor Y in cui ci sono alcune immagini veramente formidabili, come quella dello stile metrò. Céline dice che esistono molti modi per spostarsi a Parigi e di preferire il metrò, il cui equivalente stilistico è una scrittura concentrata, assoluta, millimetrica, dove ci sono i binari e, addirittura, i puntini di sospensione sono le traversine. E poi avverte: lo stile deve essere profilato alla perfezione, basta un centimetro perché la carrozza sbandi, deragli, facendo centinaia di morti tra i lettori che, nella metafora, sono i viaggiatori.
Per Proust non si può parlare di «stile metrò».
ALESSANDRO PIPERNO — Non in questi termini. C’è un modo, che può essere riferito a Mallarmé e a Flaubert, cioè al massimo poeta e al massimo narratore dell’Ottocento francese, che parte da una sorta di esigenza di cogliere, attraverso la parola insostituibile, l’assoluto. L’idea che lo stile sia un’idea essenzialmente di precisione ha molto a che fare con Michelangelo, secondo cui la scultura è già dentro il marmo. In qualche misura Flaubert pensa la stessa cosa: la parola per descrivere una certa situazione esiste già, lo scrittore deve solo trovarla. E può essere detta solo in quel modo e non in un altro. Su un piano molto diverso e con implicazioni molto più misticheggianti, qualcosa di simile avviene anche nella concezione della poesia di Mallarmé. Mi pare che Proust e Céline invece si sottraggano a questa idea, non sono ossessionati dallo stile in questo senso. Proust non era attento alle parole, non gliene importava niente. A lui interessava soltanto la musica che poteva essere creata anche attraverso ripetizioni, cacofonie. Quelle che quando io andavo al liceo si chiamavano le bellurie dello stile non interessavano ne all’uno ne all’altro ed è proprio ciò che li rende grandi scrittori novecenteschi, non c’è niente di parnassiano in nessuno dei due, quindi sono degli stilisti moderni in questo senso.
VALERIO MAGRELLI — La precisione per Céline va intesa anche in senso polemico. A chi gli rimproverava di fare un semplice ricorso all’argot rispondeva: io per dare l’idea dell’argot devo fare un prodotto estremamente artificiale. Poi lui insiste molto sulla velocità e sul buio, certo è difficile adattarli a Proust. L’ideale per lui sarebbe stato arrivare alla monorotaia per dire l’unicitá.
ALESSANDRO PIPERNO — Sorprende quanto poco Proust abbia impiegato a scrivere la Recherche, completata in dodici, tredici anni con ritmi ossessivi, senza un’indecisione. Non solo il lettore una volta entrato nel sistema non esce più, ma neanche lui. Anche le lettere risentono talvolta di quello che non è un modo di scrivere ma un modo di pensare. Proust non usa analogie o metafore ma metonimie, figura retorica che mette insieme cose che apparentemente non si somigliano, per esempio il colore di un certo campanile di Combray all’alba con una brioche. È un tipico processo stilistico proustiano: il paragone non è completamente aderente eppure la brioche fa pensare alla mattina, al risveglio, ai profumi. Lui lavora per queste nuance e questo rende il suo stile allo stesso tempo molto imitabile e tuttavia inimitabile perché non è una questione di stile ma di testa, pensa cose che io non penso.
VALERIO MAGRELLI — Io avvicino Proust, come divinità dell’ipotassi, a Henry James per questa capacità aracnoidea di allargarsi come un ragno e imbozzolare tutto quanto. Invece in Céline prevale la paratassi: una cosa dopo l’altra, ritmo, martellamento.
Lei, tra l’altro, scrive che i due romanzieri possono essere considerati i fondatori della moderna «autofiction», che l’eroe di Proust somiglia al proprio autore quanto quello di Céline ricorda Céline stesso.
VALERIO MAGRELLI — Entrambi mettono al centro la propria vita deformandola, pur in maniera completamente diversa. Le trame di Céline sono quasi diaristiche: accompagniamo lo sviluppo del protagonista anche con esiti irresistibilmente comici e tragici come in Morte a credito. Ma non parlerei di crescita del protagonista: quella, in modo quasi iniziatico, avviene in Proust che mentre scriveva pensava a un viluppo di linee portanti, a un’arcata che in Céline non esiste. I suoi sono quadri che scorrono. Nella Recherche c’è un accrescimento emotivo e cognitivo dell’eroe che arriva alla fine a diventare ciò che temeva di non essere. Mentre in Céline c’è un’unica, continua ripetizione con alcune variazioni. E da questo punto di vista direi che oggettivamente, con tutto l’amore che continuo ad avere per lui, è più povero.
ALESSANDRO PIPERNO — Nelle affinità che io ravvedo tra i due c’è un’idea del mondo che entrambi coltivano. Penso, e questo mi ha reso avverso a molti proustiani, che in realtà Proust sia un nichilista, a dispetto di quel saggio importantissimo di Gilles Deleuze, in cui sostiene che Marcel per raggiungere l’arte sia coinvolto in uno straordinario apprendistato che passa attraverso alcune grandi leggi — l’amore, la gelosia, la mondanità — e che dopo averle decrittate le ricostruisce per capire che non contano niente. Ecco, credo questa sia l’apparenza. Certo, Proust teneva che la sua opera avesse la ricchezza di una cattedrale e che disegnasse un itinerario, che era quasi un itinerario medievale, da Santo Graal. Questa è la trama ufficiale, ma nelle pieghe del libro io vedo un’idea del mondo, un’incapacità di afferrare la verità ultima che ricorda molto Céline. È l’incapacità di capire l’altro, l’incapacità di Marcel di capire chi è Albertine, il mondo mutevole che lo assedia, la mondanità che non mantiene mai le promesse. C’è un nichilismo in Proust quasi leopardiano. In questo è parente di Céline.
Il lettore di Céline non somiglia a quello di Proust.
ALESSANDRO PIPERNO — C’è un lettore serio di Céline serio e poi ci sono gli invasati, i cripto-nazisti, nostalgici di un mondo spaventoso che si compiacciono di questo matto che randella a destra e manca. Il lettore proustiano tipico invece tende alla commozione, è sentimentale. Io penso che questi tipi di lettori facciano un torto ai loro rispettivi idoli perché le cose sono più complesse. Per esempio, una cosa che mi pare ci sia in Céline e molto meno in Proust è la pietà.
VALERIO MAGRELLI — Esattamente. La prima cosa che mi ha colpito leggendo il Viaggio è che Céline è un francescano. C’è una pietas creaturale verso i poveri, gli animali, gli anziani, che sembra strana. Céline è uno smarrito dolente, sensibilissimo all’ingiustizia sociale. Quello che dici di Proust mi fa pensare alla pagina in cui scrivi che il narratore non conosce neanche l’amore.
ALESSANDRO PIPERNO — Céline, o meglio Ferdinand, conosce l’amore. Il narratore di Proust non lo consoce, in lui non c’è pietà. Gli altri vengono utilizzati come un entomologo utilizza gli insetti. Non ha nessun rispetto nei confronti di Albertine, che viene paragonata a un vegetale, a un gatto, mai a un essere umano. Viene ricattata, o economicamente o moralmente. A un certo punto Proust dice: mi resi conto che anche il dolore era utile, usa proprio questo termine, per la mia opera, era necessario, quindi tutto quello che avevo sofferto poteva essere utilizzato. Mi sembra che in Céline si possa dire qualcosa di analogo, anche lui utilizza la disgrazia, la vergogna, l’orrore per creare.Per questo dico che Proust, sotto la sua bienséance, la sua correttezza, nasconde una ferocia non inferiore a quella di Céline.
VALERIO MAGRELLI — La crudeltà in Proust sale di temperatura quando investe l’oggetto sociale. Ricordo una scena tra le brume, qualcuno che saluta e una duchessa che lo tratta come fosse la scimmia in uno zoo.
ALESSANDRO PIPERNO — Ci sono parti nel Tempo ritrovato che sono sovrapponibili a Céline: il racconto della Prima guerra mondiale, le torture subite nel casino per omosessuali da Charlus. È interessante che per entrambi la guerra rappresenti una cesura tra due mondi.
Proust è l’epitome di tutto ciò che Céline detesta: il rappresentante della decadenza francese. Lo attacca su ciò che ha di più caro uno scrittore, la lingua, che chiama «francese giudaidizzato». Il che ci porta a un altro tema, l’antisemitismo che in Céline è chiaro e conclamato, in Proust no.
ALESSANDRO PIPERNO — Il discorso è complesso perché alcuni trattano Céline come se fosse Goebbels, o un fascistello facinoroso. In realtà per Céline non ha nemmeno senso parlare di destra e sinistra. Lui è un classico un anarcoide risentito, tra l’altro abbastanza tipico in Francia. Viene da una certa classe sociale e prova un odio feroce nei confronti di quel privilegio borghese che prende forma nell’ebreo ma che in realtà può essere cattolico, protestante o, diremmo oggi, radical chic. Il suo odio nei confronti di questa figura ha caratteristiche insite nel privilegio, cioè le buone maniere, lo scetticismo, un certo atteggiamento liberale, credere nella democrazia, tutti valori che Céline attribuisce al francese che ci sta giudaizzando. Per lui il giudaismo è questo, questa mollezza. Non a caso odia Proust, omosessuale, borghese, altolocato.
VALERIO MAGRELLI — È esattamente così. Céline ha l’impressione di essere un meteorite, un revenant, un fantasma che ritorna e con lui ritorna il grande francese ricco e carnale di Rabelais e Villon. Forse quanto hai detto sul nichilismo di Proust può essere percepibile solo a una certa distanza. È evidente che Céline non capiva che in quello che poteva apparirgli semplicemente come un romanzo psicologico c’era una complessità ineguagliata e impensabile. La questione dell’antisemitismo di Proust mi interessa molto…
ALESSANDRO PIPERNO — Céline è un caso di scuola in cui l’antisemitismo si mescola a risentimenti di varia natura. Ma, a mio giudizio, anche quello di Proust lo è: in lui c’è una profonda ambiguità nei confronti della propria origine ebraica. Ci tiene a farci sapere che è cattolico, che è stato battezzato nonostante la madre fosse ebrea. Il problema proustiano è quello che molti della sua generazione hanno dovuto affrontare. Su questo c’è un bellissimo testo di Isaiah Berlin in cui parla proprio di quella stagione dell’ebraismo occidentale, segnato da forte ambiguità sopratutto per uno, come Proust, cresciuto in un ambiente ostile agli ebrei, con un desiderio di promuoversi presso l’aristocrazia del faubourg Saint-Germain, fondamentalmente antisemita. Tutto questo nella Recherche assume dimensioni strane e ambigue. Gli ebrei vengono descritti con caratteristiche somatiche molto precise, alcune battute fatte dagli aristocratici li inchiodano alla loro essenza. È triste dirlo oggi, ma fondamentalmente Proust ha un atteggiamento, probabilmente derivato dal positivismo, dal naturalismo, fortemente razzista. Lui crede nelle razze, crede che gli omosessuali siano fatti in un certo modo, li chiama gli uomini-donna in un famoso pezzo di Sodoma e Gomorra. Come lui ci sono state altre figure in quegli anni, come Stefan Zweig, un altro con i piedi un po’ in due staffe. Erano persone che guardavano a quel mondo da cui volevano emanciparsi, con un po’ di vergogna. Oggi , dopo la Shoah, è facile condannarli, allora era diverso.
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