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23 Settembre 2022Non c’è turismo sostenibile senza la felicità degli abitanti
di Carlo Petrini
Sostenibilità, e ancor più il concetto di turismo sostenibile, è un’espressione che è entrata in modo dirompente nella dialettica comune, fino a essere abusata. Chiariamo subito il concetto: sostenibile ha la stessa radice di “sustain”, il pedale del pianoforte che allunga la nota. I francesi lo traducono in “durable”. Un termine che contiene l’idea che le azioni che intraprendiamo devono avere come risultato una durata che persiste, più lunga. In questo contesto, miriamo a che i benefici del turismo possano essere goduti sul lungo periodo e non si consumino in fretta. Un punto per me è molto chiaro: il turismo, anche quello del vino, non ha solo aspetti positivi. Ha un impatto e criticità di cui è opportuno essere coscienti, con l’obiettivo di prevenirle.
Uno degli elementi distintivi del fare turismo sostenibile, ad esempio, è quello di operare per far sì che gli abitanti del territorio siano felici. Io vado alla scoperta di un luogo perché c’è gente che sorride, c’è una comunità viva e aperta all’accoglienza. Se i cittadini del posto non sono felici, se perdiamo l’essenza della vita sociale, allora non possiamo parlare di turismo sostenibile, ma solo di sfruttamento e benefici per pochi. Se si schiaccia sull’acceleratore dei risultati solo quantitativi, si annullano elementi culturali, se ciò che otteniamo è una società locale più chiusa abbiamo già perso. Ricordo, alla fine degli anni Settanta, in un panorama economico molto più modesto di adesso per Alba e le Langhe, un dialogo dal belvedere di La Morra con il produttore americano Robert Mondavi: «Carlo, non senti questo rumore? State dormendo con questo ben di Dio davanti ai vostri occhi». Oggi, dopo cinquant’anni di valorizzazione, che cosa mi direbbe Mondavi? Quale sarebbe il suo giudizio di fronte al fenomeno dell’impoverimento dei nostri borghi? La grande distribuzione ha fatto sparire le piccole botteghe, il profumo del pane che si sprigionava dal forno di paese, l’osteria dove si giocava a carte e si ritrovavano a socializzare gli anziani. Anche la comunità religiosa, la parrocchia, è ormai sparita. Lavoriamo tutti per il turismo. Ma se la popolazione locale non ne trae beneficio, se chiudono i negozi e si disperde il benessere sociale, allora occorre cambiare strada e pensare a un’altra forma di sviluppo. Io credo che il vero patrimonio sia la popolazione stessa, che la sostenibilità stia in un turismo che sappia governare il proprio limite. Crescere è un’ottima cosa, ma non esiste in natura la crescita perenne. Occorre armonia, come ci ha insegnato la crisi pandemica. Non si può parametrare l’efficienza del sistema turistico solo con il numero di arrivi delle persone. Non è questo che dobbiamo monitorare, dobbiamo valutare la qualità del turismo e la sua capacità di essere in armonia con il territorio.
Un secondo aspetto fondamentale è che ormai da trent’anni il vino si sta staccando dal mondo agricolo, sta diventando una commodity e ha legami sempre più flebili con l’agricoltura meno blasonata. Ma una campagna dove c’è solo la viticoltura, dove la monocultura che rende profitti elimina altre produzioni autoctone, non va bene. La biodiversità del paesaggio non è data da una distensione monotona di vigneti, ma dalla varietà. Per questo il vino deve riconnettersi al mondo alimentare, deve avere più coscienza e rispetto per le altre colture.
Infine, c’è la questione dei giovani, che non si conquistano con grandi idee di promozione turistica. Li vediamo mobilitarsi in tutto il mondo per una situazione ambientale disastrosa, il cui primo responsabile è il sistema alimentare globale. Un sistema che produce cibo per 12 miliardi di esseri umani, là dove siamo 7,8 miliardi: buttiamo via oltre il 30% del cibo. Sto parlando di un miliardo e mezzo di tonnellate di cibo edibile, per cui impieghiamo milioni di ettari di suolo e chissà quanta acqua. Ecco quale dev’essere il nostro obiettivo: un turismo enologico responsabile, un atteggiamento attento per l’agricoltura, una denuncia delle monoculture, dell’accanimento chimico, delle sacche di caporalato e di sfruttamento dei lavoratori. Il turismo del vino può essere un’autostrada vincente, ma per nulla sostenibile e durevole. Il cambiamento climatico a cui stiamo assistendo ne è la dimostrazione. L’atlante delle grandi vigne di Langa che tanti anni fa ho contribuito a creare indicava le posizioni migliori, i cosiddetti cru. Oggi queste vigne danno vini cotti dal caldo e si favoriscono le zone meno esposte, più ombreggiate. Se il turismo del vino non ha coscienza di tutto questo, come può essere un elemento attivo? Questa per me è la vera sostenibilità. Prendiamo coscienza ed aiutiamo gli altri a crescere, senza chiuderci in una bolla, altrimenti moriremo per asfissia. —
Testo raccolto da Roberto Fiori dall’intervento alla Conferenza mondiale dell’enoturismo Unwto