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Se n’è andata Claudia Cardinale, e con lei scompare un’idea di cinema che non tornerà più. Non solo un’attrice, ma un volto che ha dato forma a un’epoca. La sua Angelica ne Il Gattopardo di Visconti è rimasta sospesa nel tempo, icona definitiva di un’Italia che si specchiava nella propria storia per capire se stessa. Quel ballo con Burt Lancaster, quell’entrata che abbaglia il Principe di Salina e tutto il pubblico, sono diventati il rito d’iniziazione di una nazione intera nel passaggio all’età adulta.
Cardinale fu la bellezza mediterranea fatta carne, ma anche la voce roca, l’intensità di uno sguardo che non chiedeva il permesso di esistere. Dalla Tunisia, dove nacque per caso di destino, al centro del mondo, il percorso è stato di pura forza centrifuga: vinse un concorso di bellezza senza iscriversi, approdò a Venezia e cambiò la traiettoria della sua vita.
Gli anni Sessanta furono il suo regno: Visconti, Fellini (8 ½), Blake Edwards (La Pantera Rosa), Comencini, Zurlini, Monicelli, Germi. Il cinema italiano e internazionale le chiese di incarnare il desiderio e lei lo fece senza mai diventare oggetto: sempre soggetto, sempre sovrana. Anche quando arrivarono i western di Leone e le follie amazzoniche di Herzog, Cardinale restò Cardinale: magnetica, inafferrabile.
I premi, i David, i Nastri, i Leoni d’Oro non bastano a misurarla. Claudia Cardinale è stata l’ultima vera diva che non ha mai fatto la diva. Non il simulacro fragile del gossip, ma la forza calma di un mito. Con lei muore un certo modo di intendere il cinema italiano: colto ma popolare, aristocratico e carnale, capace di parlare al mondo senza tradire le proprie radici.
Claudia Cardinale se ne va, ma Angelica continua a ballare nel salone del palazzo Gattopardo. E noi restiamo a guardare, ipnotizzati, sapendo che quel passo, quella luce, quella bellezza sono ormai patrimonio dell’eternità.