«Rock ’n’ Roll will never die», cantava con furiosa amarezza un disperato Neil Young nel 1979. In un disco che si intitolava Rust Never Sleeps, la ruggine non dorme mai. È vero, il rock ’n’ roll non muore mai, ma muoiono inevitabilmente, per il nostro sconforto, i grandi rocker, quelli che hanno messo mattoni, malta e misure giuste per costruire il grande edificio del rock. Come Jerry Lee Lewis. Una leggenda spesso ripetuta del rock (ma ci sono succosi riferimenti anche al blues e al jazz) vuole che i più grandi muoiano giovani, giovanissimi: Robert Johnson, Charlie Christian, Buddy Holly, Jimi Hendrix, e via citando. Ma le leggende valgono solo come proiezione mitografica. C’è chi, nel rock, ha vissuto una vita lunga e piena, a dispetto della massima, ancora una volta di Neil Young, ancora una volta da quella canzone, che è meglio «bruciare di colpo, piuttosto che arrugginire». Jerry Lee Lewis, mancato ieri con i suoi lunghi ottantasette anni è, con B.B. King, il suo amico Fats Domino, John Lee Hooker e molti altri la conferma che non sempre si muore di rock ’n’ roll. Si muore perché è arrivata la chiamata, anche se la tua vita non è stata esattamente una passeggiata di salute e di moralità da chiesa avventista. Anche se le giunture, quelle sì, cominciavano davvero ad arrugginire.
Jerry Lee Lewis, pirata e avventuriero del pianoforte rock lanciato in corsa il grande successo l’aveva acchiappato al volo nel 1957 con un brano dalla caratura irresistibilmente fisica (come ha da essere questo ramo delle grande famiglia afroamericana) che si intitolava Great Balls of Fire. Le «grandi palle di fuoco» cantate con uno schiocco complice della bella voce tenorile di Lewis facevano anche riferimento al «ball» , verbo e sostantivo slang che sta per «spassarsela». E il rock ’n’ roll era, in quegli anni, il vero spasso nuovo.

ALMENO, così venduto, e per un nuovo pubblico di consumatori bianchi con qualche spicciolo in tasca per comprarsi i dischi e mettere le monetine nei juke box, perché le origini «black» nel jump ‘n’ jive e nel rhythm and blues nero retrodaterebbero il tutto di almeno una decina d’anni. Sta di fatto, però, che nel momento in cui Jerry Lee Lewis può dire di avercela fatta erano passati appena tre anni da quando era stato buttato nella mischia Elvis Presley con That’s Alright Mama e i suoi sensuali riverberi, e assieme Bill Haley con l’educata frenesia di Rock around the Clock. E, poi, era passato un anno appena dalla Tutti Frutti dello scandaloso Little Richard, e sempre un anno dall’avvento di Roll Over Beethoven di Chuck Berry e di Blue Suede Shoes di Carl Perkins. Nasce poverissimo in Louisiana a Ferriday nel ‘35, Lewis, lo stesso anno di Presley, medesima miseria e attrazione per la musica da giovanissimo: il gospel trascinante che si suona nelle chiese, e che declinato in versione laica è il nerissimo rhythm and blues.

Jerry si mette in scena come un posseduto, uno spirito della sensualità pura, un anarchico indomabile che inneggia alle gioie del sesso e della fisicità più esplicita

SU UN PALCO al piano la prima volta a quattordici anni, il padre che passa alla fine col cappello: tredici dollari, una fortuna per la famiglia. Jerry prende il coraggio a quattro mani, si presenta al boss Sam Phillips, e la sua già rovente miscela di gospel, country music e boogie woogie fa centro. Jerry non è un tipo tranquillo: in un concerto cui assiste Phillips spazza via lo sgabello del piano che ha imparato a suonare con una foga delirante, comincia a sfidare il proprio strumento suonandolo di spalle, saltandoci sopra, ingaggiando un corpo a corpo scenico simile a quello che una dozzina d’anni dopo praticherà Hendrix con la chitarra. Lì nasce il soprannome «Killer» per quel ragazzo eccessivo e trascinante, che raddoppierà l’intensità dei suoi show fino a «bucare»la grigia cappa di moralismo che alberga negli States, anche in televisione. Jerry si mette in scena come un posseduto, uno spirito della sensualità pura, un anarchico indomabile che inneggia alle gioie del sesso e della fisicità più esplicita. Tuonano i reazionari : «L’oscenità e la volgarità del rock ’n’ roll è chiaramente il mezzo con cui i bianchi saranno ridotto al livello dei negri». Sei matrimoni, un fiume d’alcol, migliaia di concerti defatiganti. Inevitabili cadute, fumiganti rinascite. Breathless, High School Confidential, Whole Lotta Shakin’ Goin’ On resteranno: il rock ‘n’ roll non morirà mai. Grazie anche a lui.