Se la cosa non sembrasse impertinente, al titolo della bellissima mostra che il museo del Novecento di Milano ha dedicato ad Aldo Rossi, verrebbe la tentazione di aggiungere un punto interrogativo: «Aldo Rossi, design(?)» (fino al 2 ottobre).
Sono davvero oggetti di design come comunemente li intendiamo quelli che ci scorrono davanti agli occhi nelle sale ritinteggiate con gli azzurri e i rosa che lui tanto amava? Sono oggetti pensati per svolgere una funzione o non sono piuttosto figure e immagini che dominano rispetto alla funzione stessa?
Lungo la sua parabola creativa, il grande architetto milanese nato nel 1931, primo premio Pritzker italiano, ha “firmato” una settantina di oggetti, oggi raccolti in un catalogo ragionato, curato da Chiara Spangaro e pubblicato da Silvana in occasione della mostra milanese, strumento completo e prezioso per gli studi a venire.
Il design non è stato quindi per Rossi un’attività collaterale, del resto la sua forma mentis non contemplava la possibilità di “attività collaterali”. È emblematico questo ricordo riportato nella sua Autobiografia scientifica, uno dei libri più intensi e necessari del secondo Novecento italiano: «Stavo nella grande cucina a S., sul lago di Como, e disegnavo per ore le caffettiere, le pentole, le bottiglie. In particolare amavo le caffettiere smaltate, blu, verdi, rosse, per il loro volume bizzarro; era la riduzione di architetture fantastiche che avrei incontrato più tardi». Erano gli anni della guerra, Aldo, che aveva poco più di dieci anni, era sfollato sul lago con la famiglia: ai suoi occhi la cucina di casa era un microcosmo di città e gli oggetti erano edifici, torri, palazzi, cioè archetipi architettonici.
Per Aldo Rossi architettura e design non sono discipline confinanti, ma costituiscono un unico campo, nel senso che parlano lo stesso linguaggio simbolico, semplicemente articolato su scala diversa. I primi oggetti disegnati da Rossi risalgono agli anni Sessanta, quando aveva partecipato alla mostra Nuovi disegni per il mobile italiano organizzata dall’Osservatore delle Arti Industriali di Milano, curata, come anche la mostra, da Guido Canella e Vittorio Gregotti e allestita da Gae Aulenti.
Ma nelle Note autobiografiche scritte al giro di boa dei quarant’anni non aveva fatto cenno di queste prime esperienze progettuali. Il motivo lo si trova in una riflessione di qualche anno dopo: «Mi scontravo con l’idea funzionalista e angusta di “design”… Poi ho pensato all’immagine e che l’immagine dell’oggetto era più forte di quella dell’architettura; e che ancora una volta l’immagine conteneva la funzione».
L’OGGETTO DOMESTICO
Decisivo nel superare questa impasse era stato l’incontro con Alberto Alessi e la realtà dell’azienda di Crusinallo di Omegna. «Senza Crusinallo il mio interesse per il design sarebbe diminuito», aveva confessato. È in quel conteso che scatta di nuovo per Rossi la magia dell’oggetto domestico, sulla scena di quella che per lui è il teatro della vita quotidiana.
Tra gli oggetti uno assume una funzione quasi totemica: la caffettiera. Negli anni ne progetterà quattro per Alessi, tutte straordinariamente iconiche. «“Caffettiere architettoniche” che continuano a fare anche un buon caffè», spiegava, per rassicurare circa il fatto che l’assolutezza delle forme non andava a discapito della funzionalità.
Dopo la Percolator (1980) nel 1984 è la volta della celebre La conica, il cui nome è a dir poco programmatico: parla di un silenzio e di un assoluto della ragione come la geometria e l’archetipo. La sua forma è stata ottenuta facendo ruotare sul perno del cateto più lungo un triangolo rettangolo. Forma quindi che si genera da un’idea custodita ed espressa nella sua purezza e che svela la natura architettonica del paesaggio quotidiano di una cucina. «Come tecnici», scrive Rossi, «siamo convinti che la “brevitas” della nostra macchina ci fornisca un buon caffè; e che la sua forma diventerà presto privata e domestica». Cioè famigliare e popolare.
Ancor più riuscito ed esplicito è il terzo modello di caffettiera progettata quattro anni dopo per Alessi e messa in produzione con grande successo. È La cupola, che Alberto Alessi aveva definito «archetipo della tipologia»: cioè una sorta di caffettiera trasfigurata in “menhir”. La connessione con l’architettura è apertamente dichiarata: Rossi si rifà alla cupola progettata nel 1860 da Alessandro Antonelli, l’architetto della Mole torinese, per la basilica di San Gaudenzio a Novara.
SUL LAGO
Il meraviglioso disegno in mostra presenta le due sagome in un unico paesaggio urbano, senza preoccupazione di dar conto delle diversità di scala: la caffettiera svetta e col manico nero sembra costruire un “ponte”, un nesso diretto con la cupola ispiratrice. In questo oggetto semplice e perfetto convergono e convivono un’energia utopica e una sentimentale. L’utopia è quella di progettare e produrre un oggetto alla portata di tutti, che sia funzionale e che abbia in sé anche la forza di un totem. Sentimentalmente invece La cupola condensa alcuni dei riferimenti più cari a Rossi: la sagoma del San Gaudenzio che svetta come l’ago di una bussola nel cuore della pianura novarese, a pochi chilometri dal lago da lui tanto amato e frequentato, il Maggiore.
Su quel lago si affacciava inoltre un altro monumento che per Rossi è stato fonte infinita di ispirazioni oltre che luogo d’affezione: è il San Carlone di Arona, il colosso disegnato nel Seicento dal Cerano per commemorare il grande Borromeo. È una statua abitabile, in quanto visitabile dal di dentro: si entra nel corpo del santo, salendo una scala, fino ad arrivare ad affacciarsi dal “balcone” dei suoi occhi, come se ci si affacciasse su un osservatorio celeste. Rossi si confessa debitore al San Carlone anche per un altro motivo: quel colosso abitato gli ha dimostrato la decisività dello scambio tra interno ed esterno in ogni idea progettuale. Analogamente la magia di una caffettiera è ciò che avviene all’interno, nel segreto di un processo di cui noi vediamo solo l’esito.
Quell’accrescitivo in “one”, applicato al nome del Borromeo, infine suggerisce a Rossi la possibilità di cambi di scala, quasi come una verifica della effettiva tenuta simbolica degli oggetti progettati. Un esemplare della caffettiera viene realizzato anche in scala monumentale ed è custodito nelle sale del museo aziendale di Alessi.
Allo stesso modo la poltrona Parigi, elegantissima e dalle linee slanciate ed elementari, disegnata per UniFor nel 1991, campeggia nella piazza principale della cittadina tedesca di Weil Am Rhein, come un vero monumento, con il suo peso di quasi 5 tonnellate.
UN SENSO DI FELICITÀ
L’allestimento molto equilibrato della mostra restituisce un’altra dimensione sempre desiderata e cercata da Rossi attraverso la sua attività progettuale: quella della felicità. Gli oggetti, pur nella precisione mentale delle loro forme, devono la loro magia al fatto di proiettare un senso di felicità. È la felicità della calma domestica, di quel teatro quotidiano di relazioni, di affetti e naturalmente anche di avventure intellettuali.
Qualcosa di molto lontano da quello che oggi intendiamo per design, come eccitazione di novità e come continua ripulitura del vissuto dei contesti. Rossi progettando invece collega i tempi e le stagioni. Innova e insieme custodisce. È straordinario il percorso che lui compie su una forma come quelle delle Cabine dell’Elba. Sono le cabine da spiaggia «un’architettura perfetta… si allineavano lungo la sabbia e strade bianche in mattine senza tempo e sempre uguali. Posso ammettere che esse rappresentano un aspetto particolare della forma e della felicità: la giovinezza».
Le cabine sono un prototipo di armadio casalingo, prodotto in quatto esemplari da Molteni. Sono come piccoli templi, con le loro bande colorate, a tonalità sempre delicate e tenui, quasi ci avesse messo mano un Daniel Buren ispirato da una particolare dolcezza. «Piccole case innocenti», le aveva definite Aldo Rossi. «L’innocenza dello spogliarsi ripetendo antichi movimenti, gli indumenti bagnati, qualche gioco, un tepore acido del sale marino». In questo modo con la sua intelligenza inquieta Rossi si propone come il miglior interprete di se stesso: la ricerca di una condizione di innocenza è infatti ciò che spiega il perché i suoi lavori, così idealmente perfetti, producano ogni volta su di noi una così forte commozione.