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6 Luglio 2025La scomparsa a Londra del pianista e scrittore Alfred Brendel, il 17 giugno scorso, richiama alla mente Pascal quando annota: «L’uomo non è che un giunco, il più debole della natura; ma è un giunco pensante». La grandezza di Brendel – la cui presenza culturale nel nostro tempo trascenderà la sua pur eccezionale e longeva attività artistica – non va misurata solo sulla base della sua perfezione tecnica e della quantità di note sgranate sulla tastiera, che gli hanno permesso di distinguersi come campione della musica di Liszt e di scalare cime virtuosistiche raramente violate come la Toccata di Busoni. La figura di Brendel è stata, anzitutto, paradigmatica della dignità accordata al pensiero, una bussola essenziale per orientarsi nei percorsi musicali e della vita.
Guizzi fantastici
Il suo è stato un pensiero vivo, curioso, attento ma anche imprevedibile, paradossale, eccentrico, attraversato da un filo rosso di senso dell’umorismo, che come sempre nei grandi comédiens si accompagnava a una maschera di serietà e spaesamento, a nascondere l’angoscia di camminare sull’orlo di un abisso. Una delle poesie più emblematiche di Brendel, tratta dalla prima raccolta (tradotta in italiano da Quirino Principe per Passigli con il titolo Un dito di troppo), racconta di un essere che salta fuori ridendo dal ventre materno, e poi atterra con una piroetta nel grembo di un’altra donna.
Il riso era un elemento essenziale del suo mondo, e mescolava l’ironia romantica, il Witz ebraico e l’imponderabile granello di assurdo sempre presente negli ingranaggi della cultura mitteleuropea. Del resto, Brendel coltivava con gusto sottile il lato clownesco della sua figura allampanata, con le ciocche di capelli a incorniciare in maniera anarchica il volto disegnato dalla pesante montatura nera degli occhiali; e allo stesso modo amava maschere e pupazzi, come il Doppelgänger che campeggiava sul pianoforte del suo studio.
Per quanto erudita e scientificamente precisa, la sua scrittura saggistica è sempre illuminata da un guizzo fantastico e da un amore per il lato grottesco, che si riflettono anche nella geniale leggerezza e nella vivacità delle sue interpretazioni, soprattutto della musica viennese, il cuore più scoperto del suo repertorio. L’umorismo era una parte essenziale, per lui, del proprio pensiero musicale, e forse le sue riflessioni in assoluto più acute su comicità e musica si trovano nelle Darwin Lectures tenute a Cambridge nel 1984 dal titolo «La musica classica dev’essere esclusivamente seria?», pubblicate nel 2001 in Alfred Brendel On Music.
Brendel non è stato un pianista precoce, né tantomeno accademico. La sua formazione musicale rispecchiava il carattere eterogeneo e tipicamente mitteleuropeo del mondo in cui è cresciuto, dalla nativa Wiesenberg in Moravia, a Zagabria, dove prese le prime lezioni di pianoforte, alla colta e antica Graz, dove studiò al Conservatorio e scampò dalle peggiori devastazioni della guerra.
Così come nella sua famiglia confluivano origini tedesche, slave e italiane, l’anima del giovane Brendel si nutrì non solo di musica ma anche di letteratura, cinema, architettura, pittura, che all’inizio lo attirò quasi altrettanto delle note. Finito il Conservatorio, Brendel continuò a suonare sostanzialmente da autodidatta, rivendicando lo sforzo autoanalitico come esercizio indispensabile allo sviluppo di un senso critico, a sua volta prezioso per imparare a diffidare di quanto non gli riusciva di afferrare pienamente, senza aiuti. Dunque, la formazione musicale di Brendel fu simile a un’educazione sentimentale, fatta di esperienze, ascolti, incontri: primo tra tutti, quello con il grande pianista svizzero Edwin Fischer, che insieme a Wilhelm Kempff e a Alfred Cortot ha lasciato il segno più profondo sulla maniera di suonare di Brendel. Che al suo «maestro» dedicò un paio dei suoi primi saggi, tanto sentiti quanto penetranti, mettendo in luce il carattere sciamanico delle esecuzioni di musicisti lontani dal suo stile e dalla sua mentalità, quali erano appunto Fischer e anche Wilhelm Furtwängler.
Ciò che di più profondo Brendel ha ricevuto da Fischer è il senso di appartenenza a una tradizione, e questo significava per lui accettare «che sia la tradizione a dire all’interprete cosa deve fare, e non l’interprete a dire al capolavoro come dovrebbe essere, o al compositore cosa avrebbe dovuto comporre». E, tuttavia, il ruolo dell’interprete non implicava, per Brendel, una passiva obbedienza al dettato del compositore, ma ne faceva piuttosto il promotore della sua causa secondo il proprio libero arbitrio e il proprio stile.
Per chiarire il sottile discrimine tra i paradossi dell’interprete, Brendel scrisse un magnifico saggio che prendeva le distanze dal concetto di Werktreue, fedeltà al lavoro, divenuto di moda negli anni del dopoguerra con la nascita della cosiddetta early music e della prassi storicamente informata: «Sono stato vaccinato contro la fede cieca – scrive – dagli anni che ho vissuto sotto il regime nazista. Nella mentalità da schiavi di quell’epoca, non solo parole come «fede» e «patria», ma anche la parola «fedeltà» ha sofferto di abusi vergognosi». Ancora oggi perfettamente illuminante, questo saggio mette a fuco la differenza tra leggere pedantemente una partitura e comprendere cosa significhino davvero i simboli musicali indicati dai compositori.
In definitiva, è proprio questa perpetua analisi e interrogazione del testo il lavoro che Brendel ha svolto lungo tutto il corso della sua vita, non solo artistica, ma anche come mentore di una folta schiera di giovani pianisti, da Paul Lewis a Till Fellner, con i quali amava condividere non tanto gli insegnamenti tecnici quanto l’esperienza di custodire il fuoco di una tradizione viva.
Del resto, anche le conferenze e l’attività pedagica svolta dopo il ritiro dalle scene nel 2008, non erano per Brendel che una forma di ripensamento con altri mezzi della letteratura musicale (afterthought è una parola che ricorre spesso nei suoi saggi e pure nel titolo di uno dei suoi libri più importanti, Musical Thoughts & Afterthoughts, del 1990).
Quattro registrazioni discografiche del ciclo completo dei Concerti per pianoforte di Beethoven testimoniano in maniera eloquente l’attitudine di Brendel a ripensare il repertorio, trovando sempre nuovi spunti per approfondire anche gli aspetti apparentemente più scontati, e per smontarne i luoghi comuni. Sebbene il suo repertorio fosse ben più ampio, Brendel nel tempo ha concentrato la sua attenzione sul periodo aureo del classicismo viennese, da Haydn a Schubert, non perché gli fosse indifferente il Novecento e il mondo contemporaneo, bensì per un istintivo legame con la scrittura pianistica fondata sul cantabile.
Congedo dagli affetti
Il Lied è infatti stato per Brendel un fondamentale strumento di analisi del pianoforte, e nella fusione di eleganza e naturalezza raggiunta in collaborazione con il grande baritono Dietrich Fischer-Dieskau ha ricalcato le orme del rapporto del suo maestro Fischer con il soprano Elizabeth Schwarzkopf.
A Mantova, dove era stato fin dall’inizio ospite d’onore del Festival di musica da camera, amava soprattutto lavorare con i quartetti d’archi. E il messaggio che inviò quest’anno ai musicisti, quando realizzò che la sua salute gli avrebbe impedito di partecipare, suona a posteriori come emblematico della sua generosità: «L’incontro con tanti colleghi che stimo, la possibilità di esplorare la loro interpretazione di molti capolavori e di scoprire repertori originali, la sorpresa dei nuovi talenti e il rinnovare la conoscenza delle molteplici bellezze di Mantova, hanno arricchito profondamente la mia vita quando pensavo di aver già ricevuto più che abbastanza dalla musica, dall’arte, e dall’amicizia».