Per affrontare inflazione e distribuzione del reddito ci sono la politica monetaria e quelle fiscale. Queste politiche possono essere più o meno efficienti, ma le analisi sottostanti alle decisioni e le misure adottate sono frutto di conoscenze ed esperienze consolidate, accumulate nel tempo.

Oggi però assistiamo a due “fallimenti del mercato” che hanno gravi e inedite implicazioni per la crescita e il benessere, e che rendono le decisioni di politica economica difficili e dalle conseguenze incerte e controverse.

Il primo “fallimento” è la tutela dell’ambiente. Ogni decisione di investimento mette a confronto il suo costo con il valore attuale scontato dei ricavi futuri, al netto dei costi necessari a generarli.

Ma nessuna decisione di investimento ha un orizzonte temporale sufficiente a scontare il cambiamento climatico, che ha un’evoluzione secolare; e incorporare i danni che, indirettamente, l’investimento potrebbe avere sull’ambiente.

Il secondo “fallimento” sono i rischi geopolitici. La crescita economica beneficia del principio dei vantaggi comparati e della libertà dei movimenti di capitale: ogni paese si specializza nella produzione dove ha un vantaggio relativo, esportandola per importare quanto non è vantaggioso produrre internamente; e il risparmio frutta di più se i capitali sono liberi di muoversi dove la redditività è maggiore.

Due manifestazioni eclatanti sono stati il gas russo a buon mercato per sostenere il primato dell’industria tedesca e le filiere produttive che hanno trasformato la Cina nella manifattura del mondo.

Ma l’uso dei rapporti economici come arma di guerra si è dimostrato un rischio mortale per il principio del vantaggio comparato; e l’imposizione della Cina di joint venture per gli investimenti stranieri, rivelatisi uno strumento per impossessarsi della loro tecnologia e know how, ha minato i vantaggi della mobilità dei capitali.

COSA DEVE FARE LO STATO?

In ogni “fallimento di mercato” lo Stato deve intervenire. Il problema è come farlo nel modo più efficace. Bisogna poi decidere se affrontare i due “fallimenti” con un’unica politica, oppure separatamente con politiche diverse. Infine, per affrontare questi due “fallimenti” ci vogliono risorse ingenti che i bilanci pubblici non sono in grado di sostenere, e sorge il problema di come mobilitare a questo scopo i capitali privati.

Negli Stati Uniti, l’amministrazione Biden ha definito un piano per la transizione ambientale basato su forti incentivi per i nuovi investimenti privati nelle rinnovabili e in tutti i settori legati alla transizione ambientale.

Lo Stato ha quindi definito un piano strategico per indirizzare gli investimenti privati, e li incentiva con massicci crediti di imposta, che servono da volano per la mobilitazione dei capitali privati.

Il governo finanzia gli incentivi fiscali prevalentemente con nuove imposte; e lascia libero il meccanismo dei prezzi legati all’energia e alla transizione, senza però intervenire sulle conseguenze re-distributive che questo comporta.

IL PROBLEMA CINA

Infine cerca di affrontare i due “fallimenti” allo stesso tempo, dove però il rischio geopolitico è rappresentato dalla Cina, aumentando gli incentivi, e in certi casi vincolandoli all’utilizzo di materie prime e produzioni made in Usa, uso di mano d’opera sindacalizzata o localizzazione degli impianti in determinate aree: in questo modo vuole invertire il trend del processo di delocalizzazione in Cina dell’ultimo ventennio, per re-industrializzare l’economia americana nei settori connessi ai due “fallimenti”.

Il piano sembra efficace visto che anche le imprese europee vedono negli Stati Uniti la maggiore opportunità di investimento nella transizione ambientale.

Per esempio, pure Enel, il nostro campione green, ha il 36 per cento della capacità produttiva installata in rinnovabili (escluso idroelettrico e geotermico, vincolati dalla geografia) negli Usa, contro il 23 in Europa, di cui meno del 4 in Italia.

Ci sono però delle ricadute negative. La prima è che i costi di produzione negli Usa sono più elevati che in Cina, generando un elemento di inflazione strutturale.

La seconda è che costituisce una barriera all’export di alcuni prodotti anche di alleati come Giappone ed Europa: per esempio, le auto elettriche europee o le batterie giapponesi dovranno essere costruite negli Usa con materie prime americane per avere il massimo beneficio dei crediti.

Con il rischio di innescare una guerra commerciale: il nuovo sistema europeo delle tariffe compensatorie per le importazioni caratterizzate da elevate emissioni (Carbon Border Adjustment Mechanism, Cbam) si applica infatti anche al made in Usa.

LA REAZIONE EUROPEA

Per alcuni governi europei il piano americano è competizione sleale perché i crediti di imposta attraggono gli investimenti delle imprese europee. Ma i crediti di imposta sono una decisione che pertiene ai singoli governi e quelli europei preferiscono allocare le risorse pubbliche agli aspetti redistribuivi della transizione energetica (tutela delle fasce deboli e di alcuni settori industriali), e puntano maggiormente sul risparmio energetico.

Gli incentivi agli investimenti privati nelle rinnovabili e il risparmio energetico sono due politiche che vanno nella stessa direzione: una scelta razionale dovrebbe basarsi dell’efficacia relativa, in termini di emissioni, di un euro di risorse pubbliche allocato al risparmio energetico piuttosto che a crediti di imposta per l’investimento in rinnovabili. Ma prevalgono ovunque logiche differenti.

In Europa, a differenza degli Usa, manca la chiara indicazione di come si intenda mobilitare gli indispensabili capitali privati per gli ingenti investimenti nelle rinnovabili, che pure risolverebbero il “fallimento” del rischio geo-politico: invece, si punta prevalentemente a sostituire il gas russo con quello di altri paesi (Usa, Qatar, Algeria, Egitto), e con il cap al prezzo di gas e petrolio russi, si vuole limitarne il costo per i cittadini, accettando così implicitamente che le forniture russe non siano totalmente sostituibile.

Quanto a rischi geopolitici, la Cina continua ad essere il primo produttore di alcuni elementi cruciali alla transizione ambientale europea e sta diventando un temibile concorrente per i nostri produttori di pale eoliche e auto elettriche.

Quanto al Cbam, si tratta più di un intervento protezionista dell’industria locale europea, che comunque produce emissioni nocive.

Un elemento caratterizzante del modello europeo è il sistema dei certificati Ets con cui vengono allocati i limiti di emissioni ai vari settori: se un’impresa non è in grado di rispettarli, deve comprare al prezzo di mercato (che è raddoppiato in un anno) i certificati per poterlo fare da chi, invece, produce meno emissioni dei limiti imposti.

E’ un efficiente meccanismo di mercato per la determinazione di quella che di fatto è una carbon tax. L’efficacia del meccanismo dipende però dalla rapidità con la quale la Commissione riduce i livelli massimi di emissione, e l’estensione della sua applicazione.

La buona notizia è che dal 2024 il tasso di riduzione del limite massimo di emissioni raddoppia dal 2,2 per cento l’anno, al 4,4.

La cattiva è che il meccanismo degli Ets verrà esteso al riscaldamento e trasporti solo nel 2027; mentre le industrie inquinanti, come acciaio, cemento o alluminio, rimarranno escluse fino al 2034. Il vantaggio degli Ets è che penalizza le emissioni; il limite è che le penali sono meno efficaci degli incentivi diretti agli investimenti privati, unica vera via per accelerare la transizione ambientale e per eliminare i rischi geopolitici.