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8 Giugno 2025Saggi «La doppia origine. Tecnica, politica, gioco», da Quodlibet
Qualunque riflessione critica sull’Occidente moderno è tenuta a misurarsi con l’operazione decisiva – e tuttora misteriosa – che ha dato origine alla politica moderna: la trasformazione della moltitudine in un popolo, un «corpo politico» cui si possano attribuire con qualche credibilità un’identità unitaria e una volontà sola.
Dalla lettura dei classici (a cominciare dal Leviatano di Hobbes), sappiamo che il «popolo» in senso moderno non è un’entità naturale ma il frutto di un artificio, che la sua costruzione è inscindibile da quella dell’autorità sovrana dello Stato e che l’una e l’altra nascono dalla paura, dal desiderio di sfuggire alla morte violenta, cui solo il potere indiscusso del sovrano sembra offrire protezione. D’altro canto, dalla storia degli ultimi secoli sappiamo che il binomio popolo/Stato si è rovesciato fin troppo spesso in una macchina letale, capace di affermare il suo dominio solo grazie al terrore, la distruzione sistematica e la morte. Da un secolo, perciò, il pensiero critico non fa che interrogarsi sulle ragioni profonde che hanno trasformato la protezione in distruzione, l’ordine civile in guerra di tutti contro tutti e il dottor Jekyll della razionalità statale nel mr. Hyde del totalitarismo. Eppure, la miseria politica in cui sembrano attualmente sprofondati tanto l’Europa quanto gli Stati Uniti mostra in modo fin troppo eloquente che la deriva criminale dell’Occidente moderno rimane tuttora, nonostante tutto, un enigma irrisolto.
Dei molti percorsi possibili per accostarsi all’enigma, Andrea Cavalletti ne ha scelto uno tanto meticoloso quanto spiazzante. Nei cinque capitoli del suo saggio su La doppia origine Tecnica, politica, gioco (Quodlibet, pp. 244, € 19,00) vengono infatti passati al setaccio di un’analisi filologica ostinata due orientamenti speculativi che hanno segnato in profondità l’ultimo secolo, intrecciandosi in modi spesso sconcertanti, per sfociare in esiti politici diametralmente opposti.
Il primo è quello che, proprio in nome dell’unità tra popolo e Stato, ha fiancheggiato apertamente il nazionalsocialismo, trovando in Carl Schmitt e Martin Heidegger i suoi esponenti più significativi.
L’altro orientamento unisce invece i pensatori che, negli stessi anni, si sforzavano di disinnescare la macchina distruttiva che stava nascendo dalla fusione tra Stato, movimento e popolo. Una compagine tutt’altro che omogenea, che a nomi illustri come Leo Strauss, Hannah Arendt e Walter Benjamin ne affianca molti altri, come Gustav Landauer o Emanuel Lasker, noti oggi solo a pochi specialisti. Tutti ebrei, comunque, e tutti espulsi a forza dal connubio tra popolo e Stato e costretti perciò all’emigrazione.
Benché l’adesione dell’autore alla seconda schiera sia del tutto inequivocabile, l’originalità della ricerca sta nel fatto che i due orientamenti non vengono banalmente presentati come due fronti opposti e separati. Al contrario, l’indagine di Cavalletti si concentra proprio sui punti di contatto e di attrito, velati spesso da una prossimità apparente che li rende più simili a un tango o una partita a scacchi che a uno scontro armato, benché fosse ovviamente chiara a tutti la gravità mortale della posta in palio.
Per ricostruire le movenze del confronto, vengono perciò analizzate al microscopio non solo le critiche esplicite – di Strauss a Schmitt o di Benjamin a Heidegger – ma anche i riferimenti indiretti, le citazioni nascoste, le lettere private e persino le espressioni amorose adottate da Heidegger nel carteggio con Arendt e spesso ripetute poi, parola per parola, nelle lettere a Elisabeth Blochmann (anche lei ebrea e anche lei costretta a riparare all’estero).
Scopo dell’indagine, ovviamente, non è minimizzare la distanza tra i due poli, ma portare alla luce il problema cruciale intorno a cui matura la loro opposizione. E il problema è la «doppia origine»: la bipolarità che divide la «città dell’uomo» dalla «città di Dio», l’appartenenza a una comunità dalla solitudine dell’appartenenza al mondo, la maschera collettiva dalla vita anonima nella massa.
Tanto in Heidegger quanto in Schmitt, questa duplicità è percepita come una minaccia, che può essere rimossa solo incitando il popolo ad affermare la propria identità in una guerra contro sé stesso e il mondo che non potrà mai avere fine.
Sul fronte opposto, invece, alla doppia origine è riconosciuta una valenza positiva, nel tentativo di farne, volta per volta, la chiave per una forma inedita di universalismo, una possibile alleanza politica di tutti gli oppressi o un genere di calcolo strategico in cui «la guerra non è che il gioco del cattivo giocatore». Si tratta di esperimenti azzardati, incompleti e spesso non del tutto trasparenti. Che a distanza di un secolo, però, possono ancora arricchire l’arsenale di chi, nonostante tutto, cerca di opporre resistenza alla catastrofe.