Sergej sembra preferire le sue amate api agli esseri umani. Le loro abitudini, i loro tempi e esigenze gli sembrano familiari, non celano nessun minaccioso segreto e alcuna sgradevole sorpresa. Eppure, quando ormai la guerra ha cambiato da più di un anno, e per sempre, il volto del villaggio del Donbass in cui è nato e cresciuto, anche all’apicoltore cinquantenne cominciano a mancare i propri simili. In pensione anzitempo a causa delle polveri di carbone respirate nelle miniere della zona come responsabile della sicurezza, Sergej è stato lasciato dalla moglie, che ora vive in un villaggio sicuro insieme alla loro bambina, e ora che a Malaja Starogradovka solo poche case sono rimaste in piedi a causa dei rispettivi bombardamenti delle forze ucraine e di quelle della repubblica separatista filo-russa, perfino incontrare l’unico altro abitante rimasto, quel Paska con cui da bambino non faceva che bisticciare, gli sembra motivo di buon umore. Sergej, che si sente più vicino agli ucraini, abita in via Lenin, mentre Paska, che simpatizza per i separatisti, in via Shevchenko, la strada che porta il nome del poeta nazionale di Kiev: a separarli, un paio di case cui gli abitanti hanno sbarrato porte e finestre prima di fuggire, e molte macerie.

Nel suo nuovo romanzo, Api grigie (traduzione di Rosa Mauro, pp. 386, euro 19), pubblicato come i precedenti dall’editore trentino Keller, che Andrei Kurkov presenterà oggi in anteprima a Pordenonelegge, inaugurando la 24a edizione del festival letterario (l’incontro si svolge alle 18 al Teatro Verdi), lo scrittore ucraino indaga i drammatici riflessi sui civili del conflitto in corso, a partire dalla regione e dal periodo in cui tutto ebbe inizio: il Donbass e la seconda metà dello scorso decennio. Dopo aver raccontato in Diario di un’invasione (pubblicato a giugno da Keller) il primo anno della guerra russa all’Ucraina, Kurkov torna ora, con una storia che respira al ritmo della natura e in cui gli individui si scoprono a rimpiangere i momenti quotidiani di condivisione e confronto, alla sua stessa genesi, spesso incomprensibile per chi ne fu involontario testimone o vittima. Un romanzo che alla potenza distruttrice del conflitto, sostituisce un’indagine sulle risorse che l’animo umano è in grado di produrre di fronte all’orrore e alla distruzione. Una storia delicata e aspra allo stesso tempo che riafferma il valore della vita e dei sentimenti proprio mentre l’echeggiare delle bombe sullo sfondo sembra negarne l’esistenza stessa.

«Api grigie» non si può definire un romanzo di guerra in senso stretto, ma è certo che nella vita del protagonista, come degli altri personaggi del libro, il conflitto in corso gioca un ruolo determinante. Con quale spirito è nata la storia?
Ho iniziato a scrivere questo romanzo nel 2017 dopo tre viaggi nella zona di guerra del Donbass. Una volta ho percorso tutta la linea del fronte fino a Severodonetsk, al confine con la Russia, parlando con civili e militari. Ho visitato città in cui si è vissuto per sei mesi senza elettricità. A quel tempo in Ucraina erano già stati pubblicati oltre duecento libri sulla guerra, ma la maggior parte erano saggi, diari, memorie di battaglie, eroi e nemici. Nessuno era dedicato alla popolazione civile coinvolta nel conflitto. Una volta ho incontrato un giovane sfollato da Donetsk a Kiev, nella sua città era proprietario di un negozio, ma ha perso tutto ed è riuscito ad aprire un piccolo bar nella capitale. Mi ha raccontato che ogni mese torna in macchina nel Donbass per visitare un villaggio dove vivono ancora sette famiglie e porta loro medicine e altre cose necessarie poiché lì non c’è nulla che funzioni: nessuna autorità, né polizia, né negozi, elettricità, assistenza medica o farmacia. Ho capito che stava parlando di persone che vivono nella «zona grigia». E ho iniziato a studiare questo territorio che aveva la stessa lunghezza della linea del fronte: 430 chilometri e comprendeva decine di villaggi. Il libro è nato così.

Sergej sembra preferire le api agli uomini, il mondo naturale apparentemente sereno a quello che gli umani hanno plasmato nel caos. È il suo modo di reagire alla guerra?
In realtà stavo cercando soprattutto di descrivere il carattere considerato un po’ come l’archetipo degli abitanti del Donbass: gran lavoratori, politicamente passivi, persone che non si lamentano mai e che fanno ciò che gli viene detto, ma che allo stesso tempo cercano l’armonia e il benessere. Per Sergej le api sono creature ideali perché gli ricordano proprio questa immagine mitizzata del proletario del Donbass. Le api producono miele senza sosta, ma il miele gli viene portato via. Eppure continuano a vivere e lavorare senza dire nulla, così come faceva la gente del Donbass ai tempi dell’Urss. Detto questo, credo sia naturale cercare rifugio nella natura per pensieri e emozioni: le leggi naturali sono eterne, mentre quelle create dagli esseri umani sono sempre instabili e transitorie.

Il protagonista di «Api grigie» decide di mettersi in viaggio per la Crimea: un’esperienza dalla quale tornerà mutato. Cosa stava cercando e cosa troverà alla fine di quest’avventura?
Per Sergej questo è un viaggio all’insegna della scoperta. Prima di tutto scopre cosa sta succedendo in altre regioni dell’Ucraina. Nel romanzo si raccontano tre dimensioni del Paese: quella delle zone occupate, annesse e libere. Il protagonista fa così l’esperienza della guerra e dell’ingiustizia che porta con sé nelle diverse condizioni. In genere, la gente del Donbass viaggiava raramente, se non all’interno della propria regione. Lo stesso Sergej non ha mai visto il Mar Nero e anche quando si reca in Crimea non va in spiaggia. Però, durante il viaggio capisce chi è l’aggressore in questo conflitto e lo fa a sue spese, incontrando la famiglia dell’amico tataro, Achtem, che aveva conosciuto anni prima a un congresso di apicoltori e che è andato a trovare, ma che nel frattempo è stato ucciso dai russi.

In Crimea, Sergej si sente rispondere da una negoziante russa che ciò che dice Putin è legge in ogni campo: che effetto avrà tutto ciò su di lui?
Arrivando nella Penisola, all’inizio ammira la natura unica e l’armonia che ispira il luogo. Ma, molto presto dovrà fare i conti con il clima negativo che si respira nella Crimea annessa da Mosca, percepisce la sfiducia nei confronti dei tatari e l’isolamento in cui sono tenuti da parte della popolazione di lingua russa. Quando si reca alla sede dell’Fsb (i servizi segreti russi) per scoprire qualcosa sulla sorte toccata all’amico, si imbatte in un contesto totalitario che attira la sua attenzione. Le parole casuali di quella commessa su Putin sono solo uno dei mattoncini del sistema di controllo totale creato dai russi in Crimea.

In «Diario di un’invasione» ha raccolto in ordine cronologico i suoi testi scritti sia prima che dopo il 24 febbraio del 2022. La sua vita è ovviamente cambiata molto a causa della guerra, ma quale è stato l’impatto più significativo che ha avuto sull’uomo come sullo scrittore?
Dal 24 febbraio dello scorso anno mi sento come se non avessi più una casa, nessun rifugio sicuro. E anche quando pianifico qualcosa, capisco che la guerra può sempre interferire con i miei piani e annullarli. La guerra può cancellare tutto, compresa la mia vita. E ne sono sempre consapevole. Quando sono all’estero, mi preoccupo per i bambini che vivono ancora a Kiev e non vogliono andarsene. Quando sono a Kiev, inizio a preoccuparmi meno per me e la mia famiglia e a preoccuparmi di più per la città che amo fin dall’infanzia. Ho la sensazione che questa aggressione russa abbia un enorme impatto sulla psiche di tutti gli ucraini. L’intera nazione è traumatizzata, molti diventano radicali e intolleranti verso le opinioni degli altri. Nel Paese è aumentato il numero dei casi di violenza domestica e di divorzio. Ci vorranno molti anni prima che questo trauma scompaia e svanisca. Senza contare che una simile guerra, con tutte le sue atrocità contro la popolazione civile, dimostra che l’umanità non sta cambiando in meglio. E che guerre simili potrebbero ripetersi in futuro.

Sempre nel «Diario» spiega che la guerra che l’ha resa, con la sua famiglia, uno dei milioni di sfollati del suo Paese, le ha però consentito di comprendere meglio l’Ucraina e i suoi concittadini. Cosa ha capito?
Fin dall’inizio della guerra io e mia moglie abbiamo iniziato a guardarci intorno: chi possiamo aiutare in questo momento? Abbiamo portato via la nostra amica e suo figlio da Kiev. Poi nostro figlio ha contribuito a organizzare l’evacuazione di molte altre persone, quando era quasi impossibile lasciare la città in sicurezza. Ma quando siamo partiti da soli, sono rimasto sorpreso dalla facilità e dalla disponibilità con cui dei perfetti sconosciuti ci hanno aiutato. Questa solidarietà degli ucraini, questo desiderio di aiutarsi a vicenda nei momenti difficili, mi ha stupito. La guerra ha risvegliato nella maggior parte delle persone un’umanità che non sempre si era manifestata prima. Quando avevamo trovato rifugio a Uzhgorod (un centro dell’Ucraina occidentale sul confine con Slovacchia Ungheria), nell’appartamento di uno sconosciuto, sotto casa nostra c’era un’auto con sopra un annuncio: «Se hai bisogno di aiuto per viaggiare o trasportare cose, chiama questo numero». Qualcosa di cui mi ricorderò per il resto della vita. Allo stesso tempo, fin dall’inizio della guerra, ho provato subito indifferenza verso l’intero mondo materiale: verso il nostro appartamento a Kiev, verso la nostra casa in un villaggio vicino a Kiev. Accettavo che tutto questo potesse essere distrutto dai missili russi. E da allora il mio atteggiamento nei confronti dei valori materiali è cambiato. La sicurezza, la vita stessa delle persone, la mia famiglia venivano prima di tutto.