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10 Agosto 2025Scrittori statunitensi Affidato alla voce del figlio, nella doppia funzione di testimone e di investigatore, il racconto del tracollo familiare di un docente: «La vita immaginata», da Feltrinelli
«C’è una foto di mio padre che mi tiene in braccio a poche ore dalla nascita. Nella foto il mio corpicino è avvolto in uno scialletto azzurro e mio padre ha un’espressione beata, raggiante. In un’altra foto scattata pochi minuti dopo mi guarda negli occhi con amore, ma nella sua faccia c’è qualcosa di diverso – un’esitazione? Un’ambivalenza? Vedeva qualcosa che non gli piaceva? Per anni ho studiato quelle foto come se contenessero una specie di mappa segreta del mio rapporto con lui, o dei suoi sentimenti verso di me».
A parlare è Steven Mills, scrittore con un matrimonio a pezzi e una vita della quale il lettore saprà solo lo stretto necessario, quasi fosse irrilevante e continuasse a ruotare intorno all’assenza del padre, all’indecifrabilità dei suoi comportamenti e perfino delle sue espressioni.
Ed è infatti il padre di Steven il vero protagonista di La vita immaginata, (traduzione molto bella e fluida di Ada Arduini, Feltrinelli, pp. 266, euro 19,00) quarto libro di Andrew Porter dopo le due raccolte di racconti, entrambe pluripremiate, The Theory of Light and Matter e The Disappeared, e il romanzo In Between Days.
Laureato all’Iowa Writers Workshop, dove ha avuto come docente, tra gli altri, Marilynne Robinson, Porter è una delle voci più forti della narrativa americana del nuovo millennio: per la limpidezza dello stile, la semplicità solo apparente delle strutture narrative e la capacità di dare nuova linfa alla tradizione del romanzo famigliare, su una linea che, da Yates e Cheever, arriva fino al Franzen delle Correzioni.
Come accadeva già tra le pagine di In Between Days, storia di una famiglia borghese e colta (padre architetto, madre casalinga, figlio maggiore aspirante poeta) che implode quando la figlia minore viene sospesa del college per un imprecisato episodio del quale si è resa protagonista, il fulcro della Vita immaginata è la catastrofe che colpisce la famiglia Mills quando al padre di Steven, geniale docente universitario in un college della California, amato dai suoi studenti, appassionato lettore di Proust e al tempo stesso cultore del cinema classico di Hollywood come dei maestri della nouvelle vague, viene negato il passaggio a professore di ruolo.
La delusione professionale viene vissuta come una profonda ingiustizia e come il probabile frutto di un complotto, le cui ragioni scatenanti potrebbero risiedere nella popolarità del padre di Steven, nelle feste anticonformiste che organizza a casa sua, o più probabilmente nella relazione omosessuale con il fascinoso collega Deryck Evanson, che, oltre a mandare in crisi il ménage coniugale in casa Mills, sarebbe arrivata alle orecchie del Preside del college e dei colleghi più anziani, scatenandone la latente omofobia.
Furibondo per il trattamento subito, il professor Mills precipita in una spirale di recriminazioni, scrive lunghissime lettere contro il corpo docente del college, al quale si rende definitivamente inviso, al punto che il contratto di insegnamento non gli viene rinnovato. Allontanatosi sempre di più dalla sua famiglia, sparirà dalle vite della moglie e del figlio, senza lasciare traccia di sé.
Il romanzo, narrato in prima persona da Steven, scorre su due assi temporali distinti: il primo, risalente agli anni Ottanta, racconta in presa diretta l’anno della catastrofe attraverso lo sguardo di un dodicenne alle prese con le goffaggini, la solitudine, le crisi d’identità di un semi adolescente; il secondo, ambientato a distanza di trent’anni circa dagli eventi, segue le peregrinazioni del narratore lungo la California, scandite dagli incontri e dai colloqui con il fratello e con gli ex colleghi del padre e quindi dal tentativo di capire, una volta per tutte, che cosa sia accaduto veramente nei mesi che hanno portato alla catastrofe.
Non c’è quasi nulla, nel romanzo, che non sia perfettamente a fuoco: affidandosi alla voce di Steven, nella doppia funzione di testimone e di investigatore, Porter si dimostra padrone dei personaggi e delle loro psicologie, e sa sfruttare in modo nuovo e originale la tecnica narrativa perfezionata dal Conrad di Cuore di tenebra o dal Fitzgerald del Grande Gatsby. Come Kurtz e Gatsby, il padre di Steven – non a caso senza nome – è al tempo stesso lo specchio che consente a ogni personaggio di rivelarsi al mondo e una figura indecifrabile e opaca.
La mappa segreta che Steven cerca di rintracciare nelle foto del padre rimane indecifrabile, se non assente: e come nei capolavori del modernismo, ai quali Porter deve molto, l’immagine del padre, anziché acquistare limpidezza attraverso il racconto, si appanna e diventa più sfuggente: «i diversi aneddoti cozzano l’uno contro l’altro, raccontano verità diverse ma non un’unica verità, e sono tutti inquinati dall’inaffidabilità della memoria».
Rimane quindi un’unica, catastrofica certezza, che il padre di Steven, prima di sparire nell’oblio, affida al suo amato Proust: «I veri paradisi sono i paradisi che abbiamo perduto».