La storica risponde alla senatrice che si dice preoccupata per la trasmissione della memoria: “La società civile si è chiusa”
«Ho letto le dichiarazioni di Liliana Segre; sono ancora più sconfortate di quelle di qualche mese fa. E devodire che sono d’accordo con lei quando prevede che tra qualche anno sulla Shoah ci sarà una riga sui libri di storia e poi più neanche quella». Anna Foa, storica e autrice di testi importanti sulla storia degli ebrei in Italia e in Europa e sulla deportazione (tra cui Diaspora. Storia degli ebrei nel Novecento e Portico d’Ottavia 13)
commenta così le dichiarazioni che la senatrice a vita Liliana Segre ha rilasciato nelle scorse ore, intervenendo a Milano alla presentazione delle iniziative cittadine per la Giornata della Memoria del 27 gennaio; Segre ha anche aggiunto «So cosa dice la gente del Giorno della Memoria.
La gente già da anni dice, “basta con questi ebrei, che cosa noiosa”». Anna Foa non pensa che Segre sia pessimista, anzi: «Credo che la memoria di ciò che è accaduto sia destinata all’oblio, anzi in parte questo oblio c’è già, e i segnali sono molteplici: se è possibile che in Italia si facciano dichiarazioni apertamente fasciste, se è possibile un’aggressione in territorio europeo come quella russa all’Ucraina, se è possibile che persino in Israele ci siano esponenti politici che non hanno paura di dichiararsi omofobi e razzisti, allora dobbiamo chiederci: a cosa serve ricordare?».
Se è vero, come ci avverte Liliana Segre, che stiamo dimenticando il peso della Shoah, a che cosa possiamo attribuire ciò che accade?
«Sicuramente come società civile non abbiamo trovato tutti gli strumenti e siamo stati troppo retorici. Questa memoria l’abbiamo chiusa, circoscritta, come se il genocidio che si ècompiuto riguardasse soltanto gli ebrei. Avremmo dovuto capire che riguardava molto più degli ebrei, riguardava il mondo, chi l’aveva perpetrato e chi era rimasto indifferente, riguardava tutti. La presa di coscienza della Shoah è stata la base, nel dopoguerra, per la creazione dell’Unione Europea, per l’idea fondante di un’Europa senza muri e senza barriere, priva di razzismo e di nazionalismi».
Ciò nonostante non siamo riusciti a cogliere pienamente il valore di monito universale che l’Olocausto esprimeva.
«Esatto, la Shoah non è una questione ebraica, ma un monito perché niente di simile succeda non solo agli ebrei, ma a chiunque.
E lo è perché i fenomeni genocidari continuano ad accadere: penso al Ruanda negli anni Novanta, penso a Srebrenica; e ora abbiamo davanti a noi ciò che accade agli ucraini. La memoria di coloro che sono morti è una memoria santa, giusta, ma non ci possiamo fermare lì, perché se ci fermiamo aquesto allora smette di avere un senso. Non va dimenticato, tra l’altro, che la costruzione della memoria è un processo affatto lineare, che richiede tempo».
Tramandare memoria di una tragedia come l’Olocausto è stato difficile nell’Italia del dopoguerra, e ora rischiamo che quel processo di ricostruzione storica sia stato uno sforzo vano?
«Il silenzio sulla deportazione e sui lager è durato almeno dieci, quindici anni dopo la fine della guerra. Non fu un silenzio completo, alcune opere furono pubblicate: non solo la prima edizione diSe questo è un uomo di Primo Levi; tra il ’45 e il ’48 uscirono sette memorie di donne ebree deportate. Non è poco come peso memoriale, ma è vero che a lungo la memoria della Shoah non fu distinta da quella della guerra.
Quando lo è stata, si è verificato un processo di fossilizzazione. Non è stato totale, ovviamente, e il caso dell’Unione Europea è importante in questo senso, ma c’è stato».
Ci sono antidoti a questa “fossilizzazione”? La senatrice Segre ha detto anche che le pietre d’inciampo per lei sono ancora più importanti della giornata della Memoria perché danno un nome alle vittime.
Eppure vengono talvolta sfregiate o ignorate.
«È molto bella la cosa che Segre ha detto sulle pietre d’inciampo. È vero che spesso non c’è una risposta, ma non è sempre così. Io ho visto i ragazzi della Sapienza durante un incontro con lei, rapiti dal suo racconto, e credo che dipenda dal fatto che sa toccare i cuori ma anche la razionalità di chi ha davanti. Questo punto della razionalità secondo me è fondamentale nel continuare un’opera di trasmissione della memoria».
È questa la chiave per parlare alle nuove generazioni, se ancora ce n’è una?
«Dobbiamo continuare a stringere insieme storia e memoria; la memoria da sola non basta, va riempita di fatti, di dati, di eventi che poi ci portino a elaborare un processo memoriale. Dobbiamo sapere toccare con il cuore e la razionalità le menti delle nuove generazioni. Le emozioni non bastano se non si razionalizza, se non si cerca di capire».
Quali strumenti possiamo usare, e cosa invece dobbiamo evitare?
«Io credo che oltre a insegnare la Storia anche i film, gli spettacoli teatrali, i libri siano grandi strumenti. Ma dobbiamo evitare la banalizzazione, l’appiattimento, che spesso caratterizza soprattutto ciò che proponiamo ai bambini, come se i bambini non avessero diritto alle cose alte. Al tempo stesso credo sia essenziale evitare il macabro, il morboso, che è l’altro grande pericolo oltre all’appiattimento. Si può avere orrore della morte, avere orrore della guerra anche senza mostrare cataste di corpi».