Il giardino di Anna Peyron si annusa ancora prima di vederlo. Sulla Collina di Castagneto Po sopra Chivasso, all’interno di una proprietà di famiglia, appare la Signora delle rose tra i profumi delle rampicanti poco o nulla attenuato dalla pioggia estiva. È un giardino pensile, limitato, ma con una terrazza sul bosco che suggerisce un infinito leopardiano. Al piano di sotto, protetto da un cancellino blu, c’è quello della figlia Saskia e poco lontano il Vivaio di famiglia, tra i più rinomati d’Italia, dove si fa largo la nipote Sole. Non tutti sanno però che la Signora delle rose è stata anche la Signora dell’arte contemporanea, levatrice al fianco del gallerista Gian Enzo Sperone del movimento dell’Arte povera. Dopo Il romanzo della rosa. Storie di un fiore, così ha scritto L’arte che abbiamo attraversato. Fotogrammi di entusiasmo e avventure (Add editore).

Come ha scoperto l’Arte povera?
«Gli artisti Mario e Marisa Merz mi accompagnarono a una mostra nella galleria di Gian Enzo Sperone, che cercava un assistente e io accettai subito. A vent’anni mi sembrava il massimo della vita: era un crocevia di artisti nel cuore di Torino».

Chissà quanti incontri…
«Un giorno Alighiero Boetti entrò in galleria con in mano il libro Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Màrquez dicendo che nulla sarebbe stato più come prima. Ricordo giornate intere con il critico Germano Celant per organizzare le prime mostre sull’Arte povera. Un movimento nuovo e rivoluzionario per i materiali e per l’idea di libertà che portava avanti. Una figura determinante fu Michelangelo Pistoletto, che portò l’Arte povera a Torino dopo un viaggio a Parigi».

Come avvenne?
«Quasi per caso. Stava attraversando una strada e vide scaricare i quadri della Pop art, Lichtenstein, Warhol… Era la galleria di Leo Castelli e Ileana Sonnabend, a cui mostrò i suoi primi specchi su fondo nero tirato a lucido. Li portò a Torino e con loro iniziammo a produrre le prime serie di Pistoletto. Con Sperone e Giorgio Pellion di Persano aprimmo la Gallerie dei multipli. All’inizio non avevamo il becco di un quattrino, poi con mio marito Gian Maria Pellion siamo diventati collezionisti. Un terzo fratello, Paolo Pellion, è stato il fotografo dell’Arte povera».

Perché Torino è il centro dell’arte contemporanea?
«È sempre stata la città dell’avanguardia italiana, dall’auto al cinema e alla moda. I provinciali dicono che Milano ci ha rubato tutto, ma l’importante è iniziare e continuare a creare».

Pistoletto dice che non ha mai letto un libro, lei gli crede?
«Penso sia vero, lui ha una grande curiosità naturale e una forte voglia di sperimentare e uscire dal ghetto, come quando rischiò di restare l’uomo degli specchi e si inventò altro. È un artista sicuro di sé che non si è mai fermato spingendosi sempre a cercare altrove».

Oggi chi sono i suoi artisti preferiti?
«Ammiro Giulio Paolini, uomo di grande cultura che riesce a stupire sempre. E Salvo, amante del gioco, della sfida e dell’improvvisazione, non a caso amico di Boetti, ironico e impressionante».

E cosa dice di Zorio, Penone, Merz?
«Hanno tutti comprato da me un sacco di rose».

Com’è nato il vivaio?
«All’inizio mi occupavo solo di piante grasse, perché mi ricordavano le sculture. Proponevo quelle meno conosciute come i melocactus o i pachypodium senza spine, perché ci sono tante piante grasse senza spine. Un’estate andai da un vivaista fiorentino per imparare, poi decise di chiudere e allora rilevai le sue 300mila piante».

E le rose?
«Desiderando un paesaggio gradevole attorno a me chiesi all’amico architetto Paolo Pejrone qualche consiglio. In Inghilterra al Chelsea flower show, dove mi trovavo per le piante grasse, rimasi impressionata dal catalogo del coltivatore John Scarman, che venne poi a trovarmi a Castagneto complimentandosi per la mia scelta suggerita da Pejrone di rose antiche laevigata, banksiae, noisette e alba. Notò che qui crescevano meglio che in Inghilterra e decise di venirmi a trovare ancora per innestarle, tagliarle e invasarle. Così ho smesso con i cactus e ora o ho duecento varietà di rose. Contraria ai pesticidi, ho smantellato le serre e piantato agli decorativi antiparassitari».

Qual è la sua rosa preferita?
«Mi piacciono le noisette. A volte dico la canina, perché appassisce subito. Non è importante se una rosa fiorisce una volta sola, ma il suo profumo, il portamento, le bacche. Il bello è effimero, il bello è pure l’attesa del profumo di un fiore per tutto l’anno. Per fortuna il mio entusiasmo e il mio senso della sfida hanno incontrato il gusto del pubblico».

Cos’hanno in comune l’arte e le rose?
«Le opere stanno alle collezioni come le piante ai giardini. Quello che accomuna un gallerista a un vivaista è saper riconoscere l’autentico dal fasullo e il mediocre dal capolavoro per proporre agli altri poesia e bellezza. Il compito per entrambi è di coltivare cultura».

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