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30 Aprile 2023di Roberto Galaverni
Gli ultimi due anni di vita di Antonin Artaud sono stati tra i più fecondi dei suoi, almeno dal punto di vista artistico. Nella primavera del 1946, infatti, aveva potuto lasciare il manicomio di Rodez per essere accolto in una clinica di Ivry, dove le sue condizioni di vita erano senz’altro migliorate. Adesso viveva in un padiglione separato rispetto agli altri pazienti, con la possibilità di muoversi e dunque di recarsi nella vicina Parigi per incontrare gli amici e dare un seguito al proprio lavoro. Due anni soltanto, perché ai primi di marzo del 1948 sarebbe poi mancato; e non certo anni di beatitudine. Ma se paragonati all’inferno del decennio precedente (era stato rinchiuso in manicomio verso la fine del 1937 ed era stato vittima nel tempo d’innumerevoli elettroshock), fanno pensare almeno a un qualche sollievo, sempre ammesso che questo termine un po’ edulcorato possa riportarsi a un caso estremo come il suo.
Appunto ai primi mesi successivi all’internamento risalgono due notevoli testi poetici dello scrittore francese, che giusto vent’anni fa Emilio Tadini aveva tradotto e incluso in un’antologia uscita per Einaudi. È da lì che Giorgia Bongiorno li ha ripresi per proporli in un volume uscito a sua cura per le edizioni Se: Artaud le Mômo. Ci-gît, come dal titolo dei due componimenti. La traduzione è firmata sempre da Tadini, che era scomparso durante la lavorazione dell’antologia einaudiana, e dalla moglie Antonia, ma si presenta adesso accuratamente rivista dalla curatrice.
Si tratta di un’edizione confezionata bene (conserva, ad esempio, la nota alla traduzione originaria di Emilio Tadini), fornita di notizie e commenti sempre pertinenti sul poeta e sui testi, e come tale si presta anche, qualora non lo si conoscesse, ad avvicinare un autore così singolare e, diciamo pure, speciale sotto ogni punto di vista.
Quella di Artaud è infatti una delle vicende più oltranziste e inconciliabili che la letteratura moderna e contemporanea abbia conosciuto. La sua famiglia poetica è quella degli irregolari, degli eretici, degli incendiari, degli uomini in rivolta. Villon, Baudelaire e Poe, Nerval, Rimbaud, Lautréamont, sono questi gli autori che l’ideatore del teatro della crudeltà sentiva più vicini. Gli scrittori contro. Contro le mistificazioni ideologiche, le convenzioni borghesi, il conformismo della società, le ipocrisie che regolano i rapporti umani; e allora, inevitabilmente, contro tutto quello che rappresenta un travisamento nei confronti delle forze sorgive della nuda vita, a cominciare dal linguaggio e dalla letteratura. Tra tutti questi, Artaud è forse quello che ha sentito in modo più radicale la mortificazione del vivente che comporta di per sé l’uso della parola, tanto più di quella altamente formalizzata della letteratura. Già la sua concezione del teatro era tutta improntata a scavalcare il carcere della testualità in nome del gesto, del corpo, dell’atto, della presenza fisica.
Figuriamoci dunque quale potesse essere la sua percezione di un linguaggio incredibilmente specializzato e convenzionale come la poesia. Se esiste un poeta che ha scritto poesia contro la poesia, questo è Artaud. Non a caso ha composto anche una specie di pamphlet al riguardo, intitolato appunto Rivolta contro la poesia (lo ha pubblicato in italiano, per le Edizioni L’Obliquo nel 2007, Pasquale Di Palmo, il nostro poeta che in questi anni è stato più vicino, studiando e traducendo, all’opera dell’autore francese).
Proprio per questo leggere Artaud mette così alla prova. Non tanto per il linguaggio scurrile e per i riferimenti osceni di cui i suoi versi traboccano, e nemmeno per le provocazioni, le invettive, gli anatemi. Per il sentimento d’impossibilità che c’è dietro a ogni parola, invece; e per il tormento, per lo spasmo, per l’agonia che dalla prima all’ultima sillaba derivano al loro autore. Se la poesia è un inganno subdolo nei confronti della vita, infatti, come si fa dirlo con le sue stesse parole? Come si può fare piazza pulita di tutto, dio compreso, attraverso lo stesso strumento che si vuole invalidare? Viene anzitutto di qui la violenza esacerbata e continua che Artaud ha esercitato sul suo discorso poetico, ovvero sul proprio nemico. E si capisce bene perché dicesse che le sue poesie — anche se preferiva parlare di segni e di gesti piuttosto che di poesie — erano state scritte da qualcuno che si trova sul rogo. L’unico incendiario credibile — e non c’è dubbio che Artaud lo sia stato fino in fondo — è quello che entra nel fuoco per primo, quello che offre in sacrificio sé stesso: «Io, Antonin Artaud, sono mio figlio, mio padre, sono mia madre,/ e sono io».
Poche volte ci si sente inadeguati a parlare di uno scrittore come accade con Artaud. La coerenza, il rigore, l’inflessibilità, in sostanza l’etica a cui ha improntato ogni suo gesto e ogni suo respiro (come distinguerli, del resto?) sono tali da indurre sempre il sospetto, parlando di lui, di tradirlo, di frodarlo portandolo là — anzitutto nei versi, nella forma, nella grammatica del discorso — dove non voleva stare.
È come se ci si scontrasse con un principio d’intransitività. Il rischio, infatti, non è quello di darne una lettura sbagliata al posto di un’altra che sarebbe stata più giusta, come accade in pratica con tutti gli altri scrittori. No, con lui è l’atto stesso di trasporlo in parole, di descriverlo, d’interpretarlo, a risultare illegittimo, e dunque a negarlo e a offenderne la memoria. Anche stavolta potrebbe non essere la definizione giusta, ma Artaud ha voluto essere un eretico (un santo?) in opere, non in parole. O meglio, visto che ci si muove tra paradossi, in parole che non fossero parole ma direttamente gesti, corpi, azioni.
Il nostro Andrea Zanzotto ha amato molto sinceramente Artaud; e non poteva essere altrimenti visto l’estremismo senza ritorno dello scrittore francese. Di conseguenza colpisce non poco che nell’intervento che gli ha dedicato parli di lui soltanto per qualche riga. Ed ecco quello che aveva capito: «Egli non sia “fruito”, non diventi argomento di congressi; non lo si degradi attribuendogli capacità di magistero. Lo si lasci in disparte, più crudele di ogni suo progetto, e definitivo, a teatro chiuso».
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