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23 Aprile 2023Hollywood? Non è il mio posto
23 Aprile 2023di Stefano Bucci
Sogno, incubo o (più semplicemente) straordinario luna park delle emozioni? L’universo di Leandro Erlich, appena sbarcato al Palazzo Reale di Milano per la prima monografica europea, curata da Francesco Stocchi, può essere tutto questo, ma anche molto di più. Dipende dall’occhio (e dall’animo) di chi guarda. Quello di Erlich è un universo sovversivo che travolge e stravolge il quotidiano con le sue apparenti certezze: sulla facciata di Bâtiment (2004) ci si può arrampicare restando stesi a terra (tutto grazie a uno specchio inclinato di 45 gradi), nelle teche di vetro di The Cloud (2016) le nuvole galleggiano tranquillamente come se fossero in cielo; dentro la piscina di Swimming Pool (2001) si può stare vestiti senza bagnarsi. Quelli dell’artista argentino (Buenos Aires, 1973) sono ascensori che non vanno da nessuna parte (Elevator Pitch, 2011), scale mobili che si aggrovigliano (Sous le ciel, 2018), finestre spalancate sull’irrealtà (The view, 1997), classi di scuola affollate di fantasmi e vuote di studenti veri (Classroom, 2017), appartamenti che girano come giostre (Carousel, 2008).
Giocando con i materiali (specchi, vetri, cellophane, plexiglass in particolare e tutto quello che può far vedere, ma anche suggerire «altro») Erlich trasforma il normale quotidiano in qualcosa che può essere di volta in volta bellissimo oppure pericoloso. Come? Sfruttando il meccanismo delle «illusioni ottiche» che ingannano l’occhio facendogli percepire qualcosa che non è presente o facendogli percepire in modo scorretto la realtà. Nel lavoro c’è prima di tutto Duchamp: «Era il mio Superman quando ero adolescente — confessa a “la Lettura” — ma come occidentale sono anche un lontanissimo nipote della cultura greco-romana e questo vuol dire che la cultura italiana mi ispira ancora molto, sia che si tratti del Rinascimento, del Barocco o della contemporaneità di Maurizio Cattelan e Loris Cecchini».
Le 19 opere in mostra a Milano (alcune delle quali prestate dalla Galleria Continua che da sempre ha seguito l’artista in Italia) raccontano un’idea di arte partecipativa, dove il creatore e lo spettatore si ritrovano sullo stesso piano, che rimanda a The Weather Project di Ólafur Elíasson nella hall della Tate Modern di Londra (2003), alle installazioni di Team Lab (Massless, 2022), agli anamorfismi (classica variazione sul tema dell’illusione ottica) di Julian Beever (Dancing Butterflies, 2018), ai mimetismi di Liu Bolin (Hiding the city, 2015), alle inquietudini suggerite da Marina Abramovic (The artist is present, 2010 ). Ma, in lontananza, c’è anche il provocatorio voyeurismo del bed-in di Yoko Ono e John Lennon che nel 1969 avevano aperto le porte della loro stanza (e della loro luna di miele) all’Hotel Hilton di New York, ininterrottamente dalle 9 alle 21, per manifestare contro la guerra in Vietnam rimanendo distesi nel letto.
«Sono convinto che l’arte faccia parte di una riflessione più generale sulle condizione umana — spiega Erlich — ma penso che l’arte sia, per definizione, anche finzione. Una finzione che però può legare artista e spettatore, da una parte l’artista che crea l’oggetto e dall’altra lo spettatore che “interpreta” quella stessa creazione. Posso dire che Swimming Pool e Bâtiment portano lo spettatore all’interno dell’opera d’arte, facendolo diventare a sua volta parte dell’opera. Ma tutto questo lo faccio senza mai prevaricare, sono sempre gli spettatori ad avere l’ultima parola». Una formula di successo, considerati i numeri: più di 600 mila visitatori per la mostra del 2017 al Mori Art Museum di Tokyo, più di 300 mila per quella al Malba di Buenos Aires e 14 versioni per Bâtiment, di cui una in Ucraina, a Donetsk, nel 2012).
Concettuale eppur popolare, sembra guardare all’arte secondo Magritte, ma anche al cinema. E le sue installazioni che sono anche set richiamano l’«altrove magico» del Buñuel de L’âge d’or (1930) e dell’Angelo sterminatore (1962), dell’Hitchcock di Io ti salverò (1945) e della Finestra sul cortile (1962), del Lynch di Velluto blu (1986) e di I nland Empire. L’impero della mente (2006), riferimenti che riportano a un ulteriore modello, quel Dalí che proprio con Buñuel e Hitchcock aveva collaborato. «La maggior parte dell’ispirazione — precisa Erlich — viene da esperienze personali. Ho una vita nomade dove la routine non è mai facile da definire e mi piace mettere in discussione i comportamenti, le notizie, i fatti, la natura, l’architettura. Ma questa relazione con lo spazio che cerco di creare con le mie installazioni mi permette di rimanere connesso con la realtà, mi mantiene sempre consapevole dei luoghi e dei contesti in cui mi trovo».
Che cosa si prova a mettere in crisi chi ti guarda? «Penso che sia molto scomodo vivere senza certezze. Normalmente combattiamo la paura con l’autocontrollo, quell’autocontrollo che ci serve come una buona Aspirina, ma è molto meglio avere un po’ di mal di testa piuttosto che vegetare in una zona di comfort». Nessuna voglia di normalità, allora? «Nulla è mai normale, siamo noi che consideriamo normali quelle cose a cui siamo abituati e invece straordinarie quelle che all’apparenza ci appaiono come incidenti, piccoli intoppi che però sono capaci di scuotere il nostro sistema alienato». Ha mai studiato le reazioni del pubblico? «No, ma quale che siano mi piacerebbe che il pubblico si godesse una specie di viaggio filosofico in un parco dei divertimenti».
Per Dalston House (2013) Erlich aveva ricostruito in scala reale la facciata di una villetta a schiera vittoriana tardo-ottocentesca nei sobborghi di Londra, per Hair Salon (2008) un negozio di parrucchiere di Tokyo. Come sceglie i suoi luoghi? «Gli spazi che rappresento devono essere prima familiari, facili da riconoscere e dove il visitatore riesca a orientarsi subito, utilizzando le esperienze che ha vissuto o che vive quotidianamente. Sono queste esperienze che i visitatori portano dentro l’opera. Lo dico spesso: nel mio lavoro c’è una sceneggiatura nascosta nello spazio che lo spettatore può leggere attraverso i suoi ricordi e le sue associazioni. A questo punto interagire diventa spontaneo, perché la vita è comunque un teatro». Mentre, anche grazie all’uso di trompe l’oeil e doppi fondi, quello che era normale diventa improvvisamente insolito e spiazzante.
L’importante è l’attenzione: «Non ho mai pensato alle mie opere come a un esperimento antropologico, voglio piuttosto suscitare reazioni e sentimenti, perché nonostante quello che si vede oggi sui social non siamo ancora diventati del tutto dei robot, perché l’arte è sempre capace di suscitare esperienze profonde. La mia idea di arte è principalmente sulle idee e qualsiasi strumento serve a esprimere queste idee. Non sono sicuro che ciò che faccio ridefinisca l’arte contemporanea, perché l’arte contemporanea è un universo, un multiverso di espressioni. Se lo fa è per il rapporto tra il mio lavoro e la realtà in cui viviamo».
In fondo Erlich sembra raccontare una nuova idea di arte sempre meno lontana da chi la guarda. Quella stessa idea che ha spinto il Metropolitan Museum di New York ad affidare a Lauren Halsey (1987) la realizzazione di un tempio (appena inaugurato) in stile egizio sul tetto del museo all’interno dell’Iris e B. Gerald Cantor Roof Garden. Intitolata The eastside of south central los angeles geroglifico architettura prototipo, l’opera (alta sette metri e composta da oltre 750 piastrelle di cemento rinforzato con fibra di vetro) è un cubo circondato da quattro colonne e quattro sfingi «progettato — secondo Halsey — per essere abitato dai visitatori del Met», che attraversandolo potranno esplorare (fino al 22 ottobre) le sue connessioni con l’antico Egitto, con l’architettura utopica degli anni Sessanta e con la contemporaneità per comprendere come devono essere pensati oggi gli spazi pubblici». E all’esperienza fisica diretta (stavolta legata al football americano) come fonte di ispirazione e metafora della creazione artistica tornerà Matthew Barney (1967), uno dei grandi protagonisti della modernità, che il 12 maggio presenterà nella sua officina-studio a Long Island la sua video-installazione Secondary.
A Milano (la stessa Milano dove i visitatori si sono dimostrati con l’ultimo Salone del mobile protagonisti del design), Leandro Erlich ricreerà ancora quella sua irrealtà dove il possibile diventa impossibile, un’irrealtà «dove — sono sempre parole di Erlich — le cose non funzionano mai come si aspetta e dove l’arte risuona sopra di noi». È questa la stessa irrealtà che ha spopolato nel 2019 alla Cafam di Pechino, nel 2022 al Pamm di Miami (per la sua prima personale statunitense), in Brasile per la sua grande retrospettiva itinerante (ancora in corso). Un’arte che sa essere («ma sta al visitatore decidere; o meglio: sono le sue emozioni a decidere per lui») esplosiva, divertente, appassionante, indimenticabile. Un arte che (attraverso immagini e situazioni inaspettate) racconta la condizione umana «invitando ognuno a riconoscere il proprio squilibrio». Mantenendo però sempre un contatto diretto con la realtà, tecnologia compresa: «Rifletto molto su questo problema — conclude Erlich, che oggi si divide tra Parigi, Buenos Aires e Montevideo e che a Palazzo Reale di Milano porterà anche sculture, video e dipinti —. Stiamo costruendo tecnologie straordinarie e raggiungendo scoperte sorprendenti, allo stesso tempo stiamo però creando squilibri, all’interno della società, tra uomo e natura. Io rimango ottimista, ma dobbiamo conservare il nostro senso critico».
Il suo sogno? «Una matita e un foglio bianco dove tutti possano disegnare il futuro, perché credo che il futuro sia una costruzione collettiva e perché vorrei che tutti, proprio tutti, avessero almeno la possibilità di immaginarselo un futuro».
A decidere se quel futuro sia sogno, incubo o (più semplicemente) straordinario luna park delle emozioni saranno ancora una volta i visitatori.