Un bicchiere di nuvole per capire perché l’intera Europa è sedotta dal Giappone e ne assorbe e altera tradizioni, idee, moda, abitudini e cultura senza mai stancarsi di questa fonte di fascino.
Il lavoro di Aki Inomata apre lo spazio costruito da Anonymous Art Project dentro Artissima, la fiera sa come intercettare le correnti in circolo e la smania di Giappone non è recente ma qui trova una spiegazione, una chiave che apre scenari imprevedibili. L’opera ecologica è disperata: ingoiare il cielo fino a che resta così bello sembra essere l’unica maniera di proteggerlo. Eppure noi ci leggiamo una vena romantica. Una signora ringrazia per l’esperienza: «un sorso di leggerezza, è così semplice star meglio» e l’artista ne è sinceramente felice, adora l’interpretazione. Però siamo noi a tradurre in semplicità un’installazione complicatissima che prevede una stampante in 3D programmata per riprodurre le foto delle nuvole e trasferirle dentro un’ombra di latte che galleggia senza spargersi nell’acqua. Ci sono strati di pensiero, ideazione, tecnologia, ingegneria e non c’è nulla di facile, nemmeno nei giorni in cui Inomata ha concepito il concetto: «Durante il Covid, alla finestra, non mi sono chiesta solo se saremmo mai usciti di nuovo, ma pure se il cielo sarebbe stato ancora lì». Ha avvertito l’istinto di ingoiarlo, per ritrovarlo: un gesto estremo davanti alla paura dell’apocalisse.
Girato l’angolo di carton gesso ci si trova davanti ai giochi di Junya Kataoka che pratica un imperscrutabile foro in un rametto e lo fa girare su un biro in un meccanismo da carillon, riutilizzato anche per rivedere la cerimonia del tè: «Ci rappresenta, ma io non ne so nulla e infatti ho preso le ceramiche di Taipei per raccontarla».
Alle domande che mirano ad approfondire l’ironia di una tradizione che noi interpretiamo come giapponese anche se è messa in tavola con altre abitudini (da qualcuno che non la pratica), Kataoka si incupisce: «Ironia? No, questo un gioco non c’è ironia». Nella sua lingua le due parole sono distanti, nella nostra amano sovrapporsi. La fascinazione reciproca rischia di basarsi su un malinteso o almeno parte da lì. Da letture totalmente differenti che si traducono in sintesi.
Yuki Hasegawa porta una serie intitolata Neon in cui le strisce di luce psichedelica bruciano distese di fiori. Almeno così pare. È l’uomo che imprime la propria traccia sulla natura «però chi ci dice se il neon si è sovrapposto o è stato inglobato? Diamo spesso per scontati i rapporti di dominanza».
Hasegawa non sa spiegarsi il motivo per cui il Giappone piace, «anche se qui mi è ancora più evidente. Non lo so, posso solo dire che ricambio. Questa fiera mi ha mostrato un approccio nuovo, gli stand sono pieni di opere in cui si usano materiali irrituali. Non li ho mai considerati arte». Detto nella città che si è inventata l’arte povera: a quanto pare, non c’è alcuno bisogno di saperlo per riconoscerlo. La curatrice di Anonymous Art Project Kodama Kanazawa tenta una ricostruzione dello charme che il Giappone esercita sull’Europa: «Nei secoli abbiamo mescolato, nel modo più armonioso possibile, la nostra millenaria tradizione con le trasformazioni arrivate dall’Occidente e questo mix evidentemente intriga». Un’apertura obbligata dopo la guerra, il mix non è certo stato solo armonioso, ma in effetti l’incrocio ha aperto delle strade e agevolato degli incroci. In un continuo alternarsi di rigidità e sinuosità.
I quattro artisti proposti qui sono tutti nati negli Anni Ottanta, affrontano la crisi ambientale dallo stesso punto di vista, quello di una generazione che si sente defraudata, non vuole essere arrabbiata e ha elaborato gli strumenti per rispondere. Il Giappone attrae in ogni forma. Nella contemporaneità, basta guardare vede le infinite code di questi giorni per Shiota, protagonista al Museo di arti orientali, proprio a Torino. Oppure nelle grafiche più famose da Hokusai, noto per l’onda, alle calligrafie, ai manga esposti al museo civico archeologico di Bologna dal 19 novembre. Stessa data per le anime orientali proposte al museo Guimet di Parigi. E Takuro Kuwata al Warwick Art Center di Londra dove ci sono anche i pictogrammi giapponesi, il workshop di Otani a New York, l’architetto Tadao Ando che disegna il nuovo museo di Dubai.
La tendenza è globale e va avanti da un pezzo, con la popolarità dei libri, nella forma dei vestiti, nella frequenza dei viaggi, nelle scoperte del cibo. Sempre sul filo dell’equivoco, sul piacere di scoprire che gli stessi guai si possono affrontare in maniera diversa. Capita spesso che la soluzione venga interpretata con un significato alterato, eppure questo telefono senza fili invece di deformare plasma una familiarità, nutre il desiderio.
Artissima non ha certo bisogno di sottolineare il gusto, evidente da anni, ma è comunque la prima volta che presenta un progetto giapponese e vuole portare avanti la collaborazione. Non tanto per seguire una moda, quanto per indagare i motivi che la fanno durare così a lungo, con una comunicazione piena di buchi in cui non si cade mai.
Forse a spremere le ragioni del successo, si trova la formula della diplomazia.







