Alla Triennale di Milano gli scatti dei maestri degli anni Sessanta e Settanta
diMichele Smargiassi
Le buone mostre rovesciano sempre qualcosa, e questa Reversing the Eye, titolo preso in prestito da una serie di autoritratti di Giuseppe Penone, rovescia le aspettative sul suo oggetto: i rapporti fra la fotografia e gli artisti d’avanguardia italiani degli anni Sessanta e Settanta, in particolare quel gruppo di artisti in realtà eterogeneo ( Manzoni, Penone, Paolini, Kounellis, Merz, Boetti, Pistoletto, Zorio…), che venne riunito da Germano Celant sotto la fortunata etichetta di Arte Povera. Curata da Quentin Bajac, Lorenza Bravetta, Diane Dufour e Giuliano Sergio, dopo un anno è arrivata alla Triennale di Milano (fino al 3 settembre) dalle sedi inaugurali parigine di Jeu de Paume e Le Bal, dove è stata forse più comprensibile e curiosa, per i francesi che sanno poco dell’arte italiana del Novecento, di quanto sarà a noi, che ne abbiamo un’idea scontata, ma tutta da riformattare. Ed è la fotografia il reagente usato qui per sciogliere un composto troppo tenace e ottenere nuova materia viva. Non erano fotografi, gli artisti poveristi. Per loro, che esordirono nell’era dell’Instamatic guarda- e-scatta, la fotografia era solo un elemento della cultura di massa. La pretesa dei fotografi di “ fare arte”con i soli mezzi del loro strumento era naufragata trent’anni prima, quando il modernismo, con la sua adorazione per la “ specificità del medium”, aveva trascinato nel ridicolo le nebbioline dei fotografi pittorialisti dei primi del secolo, e aveva dato ali alla nuova regina della fotografia: il reportage. I cui campioni, allora, ci tenevano molto a non farsi considerare “artisti”.
Ebbene, furono questi giovanotti scarruffati a riportare negli anni ’60 la fotografia negli spazi dell’arte, magari alternativi, comunque all’interno di un contesto espressivo e non più documentario. I fotopoveristi fotografavano senza “saper fotografare”, sbagliando fuoco e inquadrature, senza farsi domande sulle potenzialità artistiche della fotografia, al contrario apprezzandola per la sua docile piattezza. La fotografia che usarono era per loro un elemento incolto che riportava la pregnanza del reale nel linguaggio artistico, associata ad altri strumenti di espressione, il gesto, la performance, il corpo. Più che sperimentazioni sul mezzo fotografico, erano ibridazioni, sovrapposizioni, fotografie stampate su specchi, su supporti plastici, su tela, ritagliate, incollate, appese, maltrattate. Ed anche un proseguimento dell’atto performativo, fissazione dell’evento effimero, che svanisce nella realtà ma resterà sulla carta sensibile.
Era una sottovalutazione del medium? Be’, forse un poco. Nel loro uso dell’oggetto fotografico comemateriale intermedio le neoavanguardie somigliavano ai loro predecessori surrealisti: che infatti non fecero fotografie surrealiste. Ma più che altro, a quella generazione la fotografia de- artizzata serviva come arma per épater le bourgeois. Il borghese venuto da oltre- Atlantico, in questo caso: la Pop Art. L’Arte Povera, sostengono i curatori della mostra, si proponeva «come avanguardia radicale, alternativa alla proposta pop, alla cultura modernista e all’iconoclastia concettuale » . Erano gli anni in cui New York strappava a Parigi il trofeo di capitale dell’arte mondiale. I francesi rimasero attoniti. In Italia invece scattò una reazione di orgoglio e indipendenza. Era quella, dopo tutto, un’Italia sulla soglia di qualcosa, fra boom economico e esplosione del ’ 68. Mario Cresci, presente in mostra, non è propriamente un esponente dell’Arte Povera. Viene comunemente classificato fotografo, ma è un multiforme esploratore di frontiere. E dunque, la cosa più originale di questa mostra è avere accostato agli artisti i fotografi- fotografi di quegli stessi anni. Quelli che, pur partendo da un uso della fotografia autoriale, si fecero venire legittimi dubbi sulle sue connotazioni ideologiche.
Ora finalmente la relazione fra i fotografi sperimentali e gli artisti d’avanguardia di quegli anni viene esplorata non come una frequentazione amicale, ma come un’autentica comunione, una condivisione di atteggiamenti e poetiche e polemiche. Ed ecco Mimmo Jodice che taglia, strappa, sovrascrive le sue “ vere fotografie”; ecco, ovviamente, Ugo Mulas che, intravisto il pericolo di restare inchiodato al ruolo di ritrattista degli artisti, «rovescia i suoi occhi » sul medium e lo mette in discussione con le sue stesse armi, nelle Verifiche. Ecco l’amicizia- competizione fra Luigi Ghirri e Franco Guerzoni, esploratori di ruderi di case nella Bassa padana. Per non dire di Nino Migliori, che da vent’anni trasportava in camera oscura i processi analitici degli artisti. Quei fotografi seppero esercitare sul loro medium quella « critica radicale del referenzialismo ingenuo, con uno spostamento dell’attenzione dalla cosa rappresentata ai modi della rappresentazione » ( Filiberto Menna) che strappò alla fotografia, definitivamente, la presunzione di trasparenza veridittiva. Fu, probabilmente, una felice congiunzione astrale, non un patto eterno di alleanza. Artisti e fotografi sono come acqua e olio, nei momenti in cui scuoti la bottiglia si emulsionano, poi tornano a separarsi; come accadde quando, dopo aver rovesciato gli occhi sul proprio fare, gli intellettuali della visione li volsero all’orizzonte, da dove erano in arrivo le confuse nubi temporalesche del digitale, del web, e ora dell’Intelligenza Artificiale pittrice.