Peter Sloterdijk possiede come pochi il gusto della provocazione intellettuale. Questa affermazione, sicuramente condivisa da molti suoi lettori, va subito chiarita, perché rischia di essere generica, dal momento che si attaglia a ogni posizione di rottura rispetto a schemi mentali e culturali consolidati. L’irritualità di Sloterdijk ha dei tratti assai peculiari: è anzitutto quella di chi sceglie oggetti di pensiero della sfera quotidiana, della percezione comune, estratti dal perimetro delle esperienze ordinarie e li interroga filosoficamente, ossia fondativamente e concettualmente, osservandoli dal loro lato inesplorato, quello che tutti vedono ma nessuno, in fondo, sa interpretare.
Grigio Il colore della contemporaneità – ma il titolo originale è Wer noch kein Grau gedacht hat: eine Farbenlehre (Chi non ha pensato ancora il grigio: una dottrina dei colori) – (Marsilio «Nodi», ed. it. a cura di Gianluca Bonaiuti, pp. 297, euro 20,00) è un esempio del metodo investigativo dell’autore di Sfere e della Critica della ragion cinica. Il colore a tutta prima meno entusiasmante della scala cromatica, sebbene nobilitato da una famosa frase di Cézanne, secondo cui non è un pittore chi non ha ancora dipinto il grigio, viene sottoposto a una ricognizione che non si limita a evidenziarne le innumerevoli declinazioni metaforiche – e già questo sarebbe un bel risultato –, ma ne indaga gli antefatti più remoti, fornendone una fenomenologia quasi in senso hegeliano, fatta di stazioni del tempo e di evoluzioni del discorso culturale.
Con questi presupposti inizia un viaggio, talora sfrontato in certe conclusioni, ma certamente di fortissima presa immaginativa e concettuale sul lettore. La dizione spesso paradossale che sorregge questa inedita e affascinante peregrinazione è il contraltare espressivo della rizomatica esplorazione di mondi culturali, i più diversi: dalle scritture bibliche alla filosofia greca, dalle civiltà precolombiane alle narrazioni messicane sull’origine del mondo e sulla genesi dei colori, dalla metafisica platonica e dei neoplatonismi alla teoria dei colori di Goethe. Ebbene, questi diversissimi spazi culturali, interrogati intorno alla genesi e allo statuto del colore, rivelano la peculiare collocazione strategica che assume il colore grigio. Strategica nell’architettura concettuale su cui si fondano gli edifici mitologici delle diverse tradizioni. Un esempio eloquente lo fornisce la Bibbia: «vale la pena notare che la Genesi riferisce di una creazione senza colori» e «la prima coppia umana, sprovvista del colore della pelle, avanza a grandi passi tra le foreste dell’assenza di qualità cromatiche».
Sloterdijk si chiede se il colore sia opera della creazione divina o non piuttosto una sorta di antitesi della verità, del logos, dell’idea. Di qui un sospetto sulle reali intenzioni divine: «ma se invece Dio, come un antesignano dei fotografi in bianco e nero, avesse creato un mondo in scala di grigi, un universo senza appeal cromatico, e solo in seguito quest’ultimo si fosse trasformato in una sfera di seduzioni colorate – e a opera di chi, se non dell’avversario di Dio?». Eppure i filosofi hanno accordato al grigio la prerogativa di rappresentare l’incompiuto, l’imperfetto, il transeunte che caratterizza la condizione umana, in una parola la sua irredimibile opacità. E già nel mito platonico della caverna, osserva Sloterdijk, i prigionieri vedono un mondo in grigio scuro, la loro collocazione impedisce la visione cromatica del vero, la realtà che essi percepiscono è fatta di ombre. Il mito rivela come i colori che gli uomini credono di vedere siano in realtà illusioni o forse diabolici inganni.
Alla domanda di Faust di chi egli sia, Mefistofele risponde: «io sono una parte che in principio era tutto, una parte delle tenebre che generarono da sé la luce, l’orgogliosa luce che ora contende alla madre notte l’antico rango e lo spazio. Eppure non le riesce perché essa, per quanto tenda e operi, resta imprigionata entro i corpi. Dai corpi emana essa e li fa belli ed ogni corpo ne intercetta il passare. Così, lo spero, non durerà a lungo e se ne andrà, coi corpi, in rovina».
La visione diacronica che Sloterdijk ci propone, dalle origini più remote della nostra storia, ci mostra come in realtà il protagonismo simbolico dei colori, nelle arti, nelle rappresentazioni del potere, nelle innumerevoli declinazioni narrative, possa essere inteso come un grandioso tentativo di esorcizzare la paura dell’oscurità. Il solo colore che non inganna e allude al nostro destino, ossia al ritorno nell’oscurità da cui tutti proveniamo, è il grigio. Non è un caso quindi che esso sia stato il colore della filosofia anche se «la cosiddetta “modernità” è contrassegnata da una somma di tentativi per uscire dall’ombra di Platone».
Alla semioscurità in cui domina il grigio delle ombre che si stagliano sulla parete della caverna sembra ritornare lo Hegel maturo, quello che nel 1821 dà alle stampe la sua opera forse più importante dopo la Fenomenologia dello spirito, i Lineamenti di filosofia del diritto. Se lo Hegel giovane rifuggiva dalle tentazioni icastiche del pensiero «immaginativo» e figurato in cui indugiavano molti dei suoi contemporanei, quelli ad esempio della prima stagione romantica, negli anni berlinesi del suo ultimo periodo Hegel si riapproprierà di quella immaginazione che aveva messo al bando da giovane. E così leggiamo nei Lineamenti la celebre frase: «Quando la filosofia dipinge il suo grigio su grigio, allora una figura della vita è invecchiata, e con grigio su grigio essa non si lascia ringiovanire, ma soltanto conoscere; la nottola di Minerva inizia il suo volo soltanto sul far del crepuscolo». Che è come dire: per conoscere la verità è necessario abbandonare la luce del giorno e, come sottolinea Sloterdijk, «senza indugi, il grigio è definito come proprietà del filosofare. (…) Con la figura del “grigio su grigio” si chiarisce la competenza rivendicata su di essa dall’arte del pensiero, come se la sua vita, la tessitura, l’essere nella zona grigia, in generale, e l’elaborazione delle sfumature di grigio, in particolare, costituissero la peculiarità del filosofare».
In una costellazione filosofica ed epocale profondamente mutata rispetto agli anni venti berlinesi di Hegel, Heidegger, un secolo dopo, si chiede: «perché non troviamo più alcun significato per noi, alcuna possibilità essenziale dell’essere? Forse perché da tutte le cose ci viene incontro una sorta di indifferenza di cui non conosciamo la ragione? (…) Ciò accade forse perché una noia profonda si trascina qua e là negli abissi dell’esserci come una nebbia silenziosa?». La sequenza di interrogazioni sul senso del proprio tempo conduce Heidegger a quello stato d’animo fondamentale che è la noia, una noia come congedo dalla nostra sfera sensibile, come un’indugiare nell’indistinto, nel grigio della nebbia che ci obbliga a guardare al di là della nostra esistenza, a uscire dal nostro tempo per scoprire in questo modo ex negativo l’essenza stessa del tempo. Sloterdijk vede in Heidegger «il Cézanne del mondo intellettuale» per questa sua acribia nell’individuare le infinite sfumature del grigio riportandole alla nostra condizione dell’essere nel mondo.
Il percorso erratico di Sloterdijk non si dà limiti spaziali né temporali, in un’alternanza di figure del pensiero e condizioni materiali, memorie storiche e figure del passato, strategie retoriche, sistemi simbolici e ragioni politiche, tra cui vale la pena di citare una geopolitica delle zone grigie: sono le situazioni in cui interessi contrapposti spesso non dichiarati mantengono stati drammatici di conflitto talora per decenni come nel Sudan del Sud, in Afghanistan, in Ossezia, nello Yemen, in Somalia. In queste realtà «l’epiteto grigio indica un’intrasparenza tale da sfiorare l’impenetrabilità».
Nel rutilante teatro di associazioni cromatiche allestito da Sloterdijk, tra metafore e concetti, ritroviamo tutta l’esuberanza stilistica e filosofica di cui l’autore ha dato prova nei suoi lavori precedenti. La sua conclusione – ma conoscendo la produttività incontenibile del filosofo di Karlsruhe è bene considerarla provvisoria – è che il grigio si assume l’onere faticoso e per nulla gratificante di rappresentare quello che Max Weber ha chiamato «il disincantamento del mondo». Le parole che meglio ne colgono l’essenza si trovano nella Gaia scienza di Nietzsche, che potremmo considerare come il suggello del saggio di Sloterdijk: «non vediamo ancora la nostra morte e la nostra cenere; così ci illudiamo e siamo indotti a credere di essere noi stessi la luce e la vita – ma sono ancora solo la vecchia vita passata, l’umanità passata e il Dio passato, che ci raggiungono con i loro raggi e il loro calore – e anche la luce vuol tempo, anche la morte e la cenere vogliono tempo! E infine, noi che ancora viviamo e rinunciamo, che cosa ne è della nostra luce a paragone delle generazioni passate? È essa qualcosa di più della luce cinerea che la luna riceve dalla terra illuminata?».