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6 Luglio 2025
Le lettere del mio amico Céline
6 Luglio 2025di Helmut Failoni
Joe Lovano (1952), dall’altra parte dello schermo (e del mondo), nel corso di una chiacchierata con «la Lettura», ride, scherza, gesticola, si muove in una grande stanza piena di strumenti musicali, mostrandoli e raccontandone la storia, ma ci tiene subito anche a sottolineare le sue origini italiane. Ne va fiero. «I miei nonni, materni e paterni, che erano anche musicisti dilettanti, emigrarono negli Stati Uniti da due diversi paesi in provincia di Messina, Cesarò e Alcara Li Fusi», spiega, scandendo bene e ripetendo i nomi dei luoghi.
Lui invece, Joe, figlio del sassofonista Tony Lovano, detto Big T, classe 1925 («è il mio idolo, il mio eroe, da lui ho imparato tutto», dice senza mezzi termini), sulla musica ha puntato ancora di più, diventando a partire da metà anni Ottanta un sassofonista jazz di fama internazionale (suona il tenore soprattutto, ma anche il soprano). È nato a Cleveland, negli Stati Uniti, ha studiato al Berklee College of Music (l’università del jazz per antonomasia), ha vinto un Grammy per il disco 52nd Street Themes (Blue Note, 2000), ha avuto altre 14 nomination… E con i suoi gruppi gira sempre il mondo.
Con la nuova tournée, che arriverà fino a Taiwan, Lovano toccherà anche l’Italia per sei date, a partire da Pescara, il 13 luglio. Sarà insieme al meraviglioso trio polacco formato da Marcin Wasilewski, il pianista più interessante della sua generazione, che iniziò a farsi notare a fianco di Tomasz Stanko nei primi anni Duemila; Slawomir Kurkiewicz al contrabbasso e Michal Miskiewicz alla batteria. Con loro Lovano ha da poco pubblicato un altrettanto meraviglioso album, Homage (Ecm) — segue l’uscita del loro precedente e fortunato Arctic Riff (Ecm, 2020) — che presenteranno in tournée.
È un omaggio a chi il nuovo disco?
«L’ho voluto scrivere anche nelle note di copertina. È un dire grazie, alle persone che sono riuscite a creare una magia durante la registrazione. Penso non solo ai musicisti, ma anche al produttore, Manfred Eicher. Dico grazie alle persone che mi stimolano a essere me stesso. Il jazz per me non è un solo uno stile: è un’idea di persone, a prescindere dal repertorio».
Nel disco si sente molta — ci passi il termine — energia. Il suono del quartetto è perfettamente amalgamato…
«Nella stessa settimana abbiamo suonato prima al Village Vanguard di New York — dove si sono esibiti i più grandi della storia — e poi registrato negli studi di Rudy Van Gelder (1924-2016, il leggendario ingegnere del suono che creò la sonorità del jazz, ndr). Si sentiva la presenza di tanti spiriti diversi in quelle sale…».
Negli ultimi anni nelle sue improvvisazioni al sassofono, sui tempi lenti sopratutto, si percepisce e con più forza un’idea nuova di «canto», di ricerca di una melodia scolpita, piena di grazia, che nella sua passività sensoriale sembra paradossalmente lontana dal jazz.
«Il jazz è un approccio, è trasformazione di qualcosa. Il jazz è suonare lo stesso brano cento volte, ma in maniera sempre diversa. I grandi del passato, Lester Young, Ben Webster e tanti altri, così facevano. Personalmente concepisco l’improvvisazione non come una serie di note concatenate, ma come una serie di sentimenti scritti in sequenza».
E per quanto riguarda il «canto»?
«Non dimentichiamo le mie origini italiane, o meglio italo-americane… Il concetto di melodia mi piace inoltre applicarlo al ritmo, che è sbagliato considerare unicamente come una scansione del tempo. Il ritmo è molto di più».
A proposito di italo-americani e di amore per la melodia, in passato ha dedicato un disco a Frank Sinatra, «Celebrating Sinatra», uscito per Blue Note.
«Ma a casa mia si ascoltava sempre anche musica diversa dal jazz, operistica soprattutto: Mario Lanza, Enrico Caruso…».
Al quale poco più di una ventina di anni fa ha dedicato un altro disco, «Viva Caruso» (Blue Note), dove canta anche sua moglie Judi…
«Judi è una cantante straordinaria. Con lei si può fare qualsiasi genere di musica. Possiamo improvvisare insieme in maniera molto naturale. È una continua fonte di ispirazione nella mia vita».
Esiste ancora oggi una differenza fra jazz europeo e americano?
«La differenza la fanno sempre le persone. Credo che per il jazz sia necessaria una forte consapevolezza del passato, della storia. Forse dico una cosa scontata, ma sono i grandi maestri del passato, il loro spirito, che ci devono ispirare, accendere una luce dalla quale partire per imparare a essere noi stessi».
A lei quella luce chi l’ha accesa?
«Prima di tutti, mio padre, come dicevo prima, che mi ha insegnato soprattutto a creare la musica con e per gli altri. Sa cosa mi diceva mia mamma prima che andassi a suonare? “Divertiti, ma pensa a fare stare bene il pubblico”. Mio padre ha potuto vedere dal vivo gente come Charlie Parker, Gene Ammons, Miles Davis».
Nel corso della nostra chiacchierata ha usato più volte la parola «spirito»…
«In questa stanza per esempio ci sono diversi spiriti (Lovano si alza dalla scrivania, gira l’obbiettivo per mostrarci diversi strumenti, ndr). La vedete questa batteria per esempio? Era del mio amico Paul Motian (1931-2011, uno fra i grandi batteristi del jazz moderno, ndr): abbiamo suonato insieme tanti di quegli anni, la prima fu nel 1981. Lui, io e Bill Frisell eravamo il Paul Motian Trio, un sogno durato trent’anni, fino alla sua scomparsa. Con questa batteria Paul ha inciso pure dischi storici con Bill Evans, con Keith Jarrett…».
Nel 2018 ha creato il Tapestry Trio.
«Sì, con la pianista Marilyn Crispell e la percussionista Carmen Castaldi. Dentro ci sono lo spirito e la libertà di Paul».
E quel pianoforte dietro di lei?
«Apparteneva a Gunther Schuller (1925-2015, figura chiave della musica americana, ndr), che ha avuto una grande influenza su di me».
Teorizzò la cosiddetta «Third Stream», la Terza corrente.
«Un periodo negli anni Cinquanta, breve ma intenso, in cui classica e jazz dialogavano. Ne uscirono capolavori, suoi, di Jimmy Giuffre, George Russell. Schuller fu anche presidente del New England Conservatory of Music. Il suo lavoro di arrangiatore mi ha stimolato molto per i miei lavori con grandi ensemble».
Lei è anche direttore artistico del Bergamo Jazz Festival: la prossima edizione sarà speciale.
«Bellissima esperienza per me. Poi, certo, il 2026 è il centenario della nascita sia di Miles Davis che di John Coltrane».
Ci anticipa qualcosa?
« Il titolo sarà Setting the Peace (Stabilire la pace). Per ora ci sono contatti con il sassofonista George Garzone, il trombettista Avishai Cohen, il contrabbassista Drew Gress, il batterista Joey Baron».
A proposito di Coltrane, Franco Maresco le ha dedicato un documentario con il titolo ispirato a «A Love Supreme», disco storico del sassofonista.
«S’intitola Lovano Supreme: è un viaggio in Sicilia, tra musica, ricerca delle mie radici, stupore. Lo abbiamo presentato anche al Festival di Locarno due anni fa».
Nell’ambiente si parla già del suo prossimo disco per Ecm.
«Sì! Con il Paramount Quartet: Julian Lage, Santi Debriano e Will Calhoun».
https://www.corriere.it/la-lettura/