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Il Ponte n.9 (1945) p. 4-12
Tutti i partiti italiani che propugnano dottrine democratiche si affermano oggi regionalisti. Questo è
logico perchè i principi dell’autogoverno sono propri della tendenza democratica che è portata
naturalmente a favorire il decentramento delle funzioni statali a vantaggio delle amministrazioni
locali.
Ma dubito assai che vi sieno nel popolo, e anche negli stessi partiti, orientamenti definiti circa le
funzioni da attribuirsi alla regione e, in genere, circa il suo ordinamento.
Vi è, se mai, qualche idea precisa a proposito dei limiti territoriali del nuovo ente da istituire perchè
da quasi un secolo l’Italia è repartita, anche con riconoscimento ufficiale, in 18 circoscrizioni che
hanno un nome, con fini corrispondenti a quelli di gruppi di provincie, e una certa tradizione.
Allora è accaduto che il regionalismo, programma astratto formulabile in ogni paese, qui ha assunto
contenuto concreto, stendendosi sopra le esistenti regioni.
Poi è nato un equivoco. Da oltre cento anni uomini politici e giuristi ed anche partiti presentano
progetti per la creazione di un’organizzazione regionale; sono movimenti individuali o collettivi
influenzati da diverse correnti di pensiero e da diverse situazioni di fatto; in un primo tempo, per
esempio, operava la tradizione dei cessati stati italiani e ciò che sembrava costume regionale era
semplicemente un particolare costume statale che poi si è trasformato in un costume statale unitario.
Ma questa periodica agitazione, dalla quale non fu immune neppure il fascismo che alle origini si
affermò regionalista, ha fatto e fa credere che la regione esista in Italia come una realtà geografica,
economica e politica, ingiustamente negata ed oppressa fino ad oggi da regimi scarsamente
democratici o autoritari, si che non vi sia altro da fare che liberarla e restaurarla per dare libero
sviluppo alla sua vitalità naturale.
Questo è un punto che merita di essere attentamente considerato perchè la storicità di una riforma
costituisce la massima garanzia della sua opportunità e della sua stabilità.
Se le regioni tradizionali, non ostante il disinteresse che la nostra legislazione ha mostrato per esse,
esistessero davvero nella realtà economica varrebbe la pena di identificarne con scrupolosa cura
tutti gli elementi costitutivi e di valersene per fondarvi le strutture della nuova organizzazione dello
stato italiano.
LA REGIONE NELLA REALTÀ ITALIANA
È noto che il problema della divisione dell’Italia in regioni fu preso in considerazione dai geografi
nel secolo XIX, ma i resultati conseguiti furono assai diversi e notevoli furono le critiche. Una di
queste divisioni fu quella adottata da Pietro Maestri che repartì l’Italia in 18 regioni in base a criteri
geografici (natura del suolo) e tenendo conto delle leggi della convivenza economica. Le provincie
furono inquadrate in questa nuova repartizione, accolta ufficialmente nel 1863, alla quale si dette il
nome di “compartimento”, mutato nel 1912 in quello di “regione”.
Nessun geografo riconosce oggi che le regioni della divisione ufficiale abbiano valore di regioni
naturali; anzi queste divisioni sono comunemente ritenute dalla scienza geografica difficilmente
giustificabili sia dal punto di vista geologico che da quello storico od economico. Altre divisioni
sono state tentate secondo criteri moderni e la più accreditata sembra sia quella di O. Maull che
distingue circa cinquanta regioni, molte delle quali divise in sottoregioni. La materia è dibattutissima perchè si incontrano grandi difficoltà nell’applicare criteri uniformi.
Intanto rimangono vivissime nell’uso popolare altre denominazioni territoriali che pur non avendo
riconoscimento ufficiale indicano individualità geografiche assai meglio, caratterizzate della
regione; quali ad es. il Friuli, la Brianza, il Casentino, la Lunigiana, il Cilento ecc.
In realtà, a considerare le regioni secondo la loro nozione odierna, appare subito che gli elementi
che le costituiscono sono eterogenei e una definizione che vada bene per tutte resulta vaga ed
approssimativa.
Direi che le regioni sono territori italiani di estensione molto diversa, ciascuno dei quali ha una città
che per ragioni storiche, demografiche ed economiche ha un’importanza superiore a quella degli
altri raggruppamenti urbani e dove fanno gli abitanti che là trovano la migliore soddisfazione di
alcuni loro bisogni, approfittando dei mezzi di comunicazione che di solito servono questa città più
agevolmente, confluendovi come ad un centro. Su questi territori vivono popolazioni che parlano lo
stesso dialetto e la lingua italiana con un accento particolare e che hanno costumi ed abitudini molto
simili e tipi di economia agraria di solito caratteristici.
Le regioni sono entità molto difformi sia per estensione (Piemonte kmq. 29.357; Liguria kmq.
5.436) sia per popolazione tanto assoluta (Lombardia 5,742.574; Lucania 531.674) che relativa
(Lombardia 245 per kmq.; Sardegna 43).
Non si può parlare di un costume politico regionale, perchè gli italiani sono essenzialmente
municipalisti ed attualmente è assai più facile conciliare i contrastanti interessi di due città della
stessa regione passando da Roma che trattandoli nei limiti regionali; e gli interessi provinciali sono
più fortemente sentiti, quali interessi naturalmente autonomi, di quelli regionali.
Non si può neppure affermare che i bisogni delle popolazioni regionali sieno uniformi e
caratteristici: ad effettuare le divisioni secondo criteri uniformi, le regioni italiane salgono press’a
poco a cinquanta come nella repartizione di O. Maull. Le regioni che ospitano importanti centri
industriali e zone agricole contengono in sè interessi contrastanti che avvicinano gruppi di
popolazione a quelli di altre regioni assai più di quanto i vari gruppi della regione sieno prossimi fra
loro: lo stesso accade nei territori che hanno agricoltura di pianura e di montagna e d’altro canto
l’uniformità degli interessi trascende spesso la regione, e si stende su zone assai più vaste come, ad
esempio, nella valle padana.
Tutto sommato, l’unica caratteristica regionale — prescindendo dal grande centro urbano
d’attrazione e dagli aspetti linguistici e folkloristici della questione — è l’agricoltura salvo che per i
territori regionali misti di pianura o collina e di montagna. Questo è logico perchè l’agricoltura, a
differenza della grande industria e del commercio, ha più carattere locale che generale, accentuato
nel nostro paese dalle particolari diversità geografiche e climatiche e dal diverso sviluppo storico e
tradizionale.
Esiste piuttosto in Italia la coscienza, una specie di opinio necessitatis, di aggruppamenti molto più
vasti e cioè un’Italia settentrionale, un’Italia centrale, un mezzogiorno e le isole, i primi tre orientati
su città diverse assolutamente preminenti, e le altre definite dalla loro natura insulare.
Occorre infine osservare che il costume politico italiano è, per ragioni prevalentemente storiche,
favorevole allo stato centralizzato e questa è tradizione assai più antica dello stato unitario perchè è
la tradizione dei cessati stati italiani, chè tutti erano centralizzati. Tale sviluppo storico è stato
certamente negativo per la formazione della coscienza democratica degli italiani, ma negare questa
realtà di fatto è retorica o demagogia.
GLI ASPETTI COSTITUZIONALI E AMMINISTRATIVI DEL PROBLEMA REGIONALE
Così il problema del regionalismo è liberato dal mito della vivente entità naturale da restituire in
pristino e da adattare alle nuove esigenze politiche. Non credo che sia il caso di preoccuparsi per
questo: si tratta semplice niente di studiare il problema del decentramento delle funzioni dello stato
in questa situazione di fatto.
In primo luogo, secondo me, è necessario eliminare quel diffuso sentimento di ostilità verso lo stato,
cioè di diffidenza dell’individuo verso l’organizzazione sociale, che non è tendenza liberale, ma
semplicemente reazione anarcoide.
Lo stato democratico sarà costituito, ma non giova indebolirlo all’origine con la sfiducia nella
costruzione in corso e neppure giova dare tutto il favore agli enti minori piuttosto che a quello
sovrano; per questa opera occorre una grande fiducia nella sovranità dello stato, cioè in una forma
di organizzazione che sappia subordinare ogni interesse particolare all’interesse collettivo.
Comprendo le ragioni prevalentemente sentimentali di questa ostilità che pongono l’accento su un
momento dialettico, del tutto transitorio, provocato dalla tirannide.
Ma vi sono funzioni che necessariamente debbono essere riservate allo stato sovrano e che non sono
suscettibili di decentramento e lo stato dovrà tornare ad essere autorità senza di che l’ordinamento
giuridico — e in Italia più che altrove — si dissolve.
Così le opinioni che circolano circa la opportunità di attribuire la funzione generale di polizia agli
enti locali o di abolire i controlli dell’amministrazione centrale sugli enti minori, quasi che lo stato
sia un nemico da combattere e da temere, non sono democrazia, sono soltanto mancanza di serietà e
non esiste e non è mai esistito uno stato, nè in paesi anglosassoni nè in Russia, che abbia sancito
costituzionalmente simili negazioni della sua stessa essenza sovrana.
In tutto questo c’è si un aspetto drammatico che è il vano tentativo dei molti italiani che cercano la
difesa dalla tirannide, intuita quale pericolo immanente, in astratte formule giuridiche piuttosto che
nella propria coscienza di uomini liberi senza la quale le istituzioni sono soltanto forme inutili.
Si tratta dunque di creare, senza aprioristiche antipatie, le condizioni più favorevoli e le istituzioni
più adatte per l’affermazione, il consolidamento e la difesa in Italia dello stato democratico
opportunamente decentrato.
Tale problema ha un aspetto costituzionale ed un aspetto più propriamente amministrativo.
Il principio generale, di natura democratica (del resto, storicamente proprio dei popoli anglosassoni
piuttosto che di quelli del continente europeo), è che l’autogoverno, cioè la partecipazione degli
amministrati alle funzioni dello stato a mezzo di organi elettivi, deve attuarsi mediante il maggiore
spostamento possibile dei poteri dalle autorità centrali alle amministrazioni locali che meglio
possono apprezzare la varietà delle situazioni e meglio soddisfare i vari bisogni collettivi con norme
e provvedimenti adeguati.
Nel costume giuridico del continente europeo questo decentramento avviene normalmente a favore
di enti, cioè di persone giuridiche che si contrappongono come amministrazioni indipendenti alla
persona dello stato. Ma questi enti possono essere veri stati non sovrani forniti di originaria potestà
di comando o di imperio, come suol dirsi con termine giuridico, che consenta loro di esercitare tutte
le funzioni dello stato nei limiti delle rispettive competenze che sono sancite dalla costituzione,
dove è stabilito quali poteri sieno invece riservati allo stato sovrano: questo è il sistema dello stato federale che attua un decentramento, costituzionale.
Oppure le amministrazioni locali possono essere enti, egualmente a base territoriale, creati dallo
stato unitario e organizzati per realizzare scopi generali propri del gruppo demografico che risiede
sul territorio e che sono anche fini dello stato unitario.
Gli uni e gli altri possono emanare leggi per disciplinare la propria attività e quella dei cittadini in
funzione dei fini da raggiungere, ma le leggi dello stato federato hanno come soli limiti quelli fissati
dalla costituzione, mentre le altre sono subordinate al rispetto di tutte le leggi generali dello stato
unitario.
Questo é il sistema del decentramento amministrativo che può essere attuato in misura più o meno
vasta a seconda dei fini e dei poteri che sieno distaccati dallo stato per essere attribuiti agli enti
locali.
La profonda differenza fra decentramento costituzionale e decentramento amministrativo è che nel
primo caso lo stato federale ha di fronte ai singoli federati i soli poteri che la costituzione gli
concede, non può assumerne altri e non può delegare agli stati federati quelli che ha.
Invece lo stato unitario ha illimitati poteri di fronte ai minori enti autarchici che derivano la loro
autorità esclusivamente da quella dello stato, che in qualunque momento, sia pure mediante
modifica di una legge generale, può mutare la loro struttura, il loro ordinamento e le loro funzioni.
In ogni caso gli enti locali amministrativi restano subordinati allo stato unitario e i loro interessi,
quantunque molteplici e importanti, sono sempre interessi primari che vengono attuati con
l’esercizio delle funzioni statali.
REGIONE E STATO FEDERALE
Se l’Italia dovesse essere ordinata come stato federale, certamente le regioni attuali non sarebbero
una base territoriale adeguata per gli stati federati e non credo che sarebbe facile adottarle a questa
bisogna con limitate modificazioni.
Inoltre il costo dell’ordinamento degli stati federati, che debbono avere gli organi necessari per il
completo esercizio della legislazione, dell’amministrazione e della giurisdizione, sarebbe tanto più
elevato quanto più numerose fossero le entità statali, anche adottando criteri di semplicità estrema.
Non è mia intenzione esaminare in questa sede l’ipotesi federale che, a quanto sembra, non è fra le
più popolari.
Gli argomenti in favore e contrari sono numerosi e seri: secondo me questa ipotesi merita più
attenta considerazione di quanta ne abbia avuta finora e se questo nostro disgraziato paese non fosse
così squilibrato socialmente ed economicamente fra nord e sud (e l’organizzazione federale
aggraverebbe inevitabilmente le differenze) i motivi positivi sarebbero probabilmente prevalenti.
Comunque la regione non é utilizzabile per questa soluzione: bisognerebbe ricercare la base
territoriale dello stato federale in limiti assai più vasti e magari adottare quella grande divisione che
è viva nelle abitudini italiane, cioè l’Italia settentrionale, l’Italia centrale, il Mezzogiorno, la Sicilia
e la Sardegna, salvo qualche statuto speciale per le zone di frontiera. Naturalmente fra lo stato
federato e i comuni bisognerebbe conservare l’ente intermedio provinciale arricchito di attribuzioni.
REGIONE E DECENTRAMENTO AMMINISTRATIVO
Scartata eventualmente la soluzione federale, il problema dell’autogoverno deve essere risolto sul
piano del decentramento amministrativi in senso stretto e finanziari, cioè le funzioni ammini-
territoriale con funzioni amministrative.
I fattori che determinano questo problema sono, secondo me, amministrativi in senso stretto e
finanziario, cioè le funzioni amministrative che possono avvantaggiarsi per il distacco dallo stato
devono caratterizzare la natura e definire i limiti territoriali più adatti per l’ente intermedio mentre
le possibilità finanziarie del paese ne condizionano l’istituzione e le funzioni.
L’aspetto finanziario è prevalente. I propugnatori di riforme non amano oggi, in Italia, la finanza.
Tutte le squille segnalano i bisogni e le relative esigenze di soddisfazione e non si tratta soltanto di
salvare l’essenziale per assicurare la vita del gruppo sociale nazionale, ma ci si sforza per quanto è
possibile di conservare o di riconquistare tutti i servizi di cui abbiamo goduto fino ad ieri e in molti
casi si tenta addirittura di migliorare la condizione di gruppi o di categorie particolari.
È un movimento spiegabile, ma nessuno si cura di accertare se le possibilità consentono di
soddisfare tutti questi bisogni e pochi si preoccupano di graduare i bisogni secondo la loro necessità
ed urgenza. Viene piuttosto alimentata la fede nelle virtù taumaturgiche degli improvvisi e radicali
mutamenti di sistema economico, auspicati dogmaticamente e non storicamente, quasi che dieci
accumulatori scarichi potessero distribuire energia per il fatto di essere posseduti da un unico
proprietario anzichè da dieci proprietari.
Pochi pensano che la saggia finanza è una delle massime glorie della democrazia e che all’opposto
il soddisfacimento sconsiderato e disordinato di tutti i bisogni che vengono segnalati sia pure
giustificatissimi provoca quei profondi turbamenti finanziari dai quali la tirannide prende vigore e
che essa aggrava fino alla rovina.
Molte forze insidiano oggi la fragile democrazia italiana ma nessuno pone mente a quella
pericolosissima, anche se non sembra tale, che è costituita dal complesso dei criteri secondo i quali
sono oggi prevalentemente amministrate le finanze locali là dove sono accolte tutte le richieste e
tutte le segnalazioni dei bisogni generali e particolari, mentre, quanto ai mezzi, viene
semplicemente e magari categoricamente richiesto allo stato quanto occorre per ripianare il
bilancio.
Ora l’aspetto finanziario è uno dei più perspicui nel sistema dell’autogorverno, che significa portare
un gruppo sociale ad amministrare per proprio conto i propri interessi, cioè a determinare i fini e ad
affrontare i mezzi per realizzarli in virtù della propria attività autarchica.
Se fosse diversamente il principio democratico sarebbe tradito e sarebbe ingiustizia.
Quando un ente diverso dallo stato riceve da questo mezzi finanziari, il danaro versato all’ente è
danaro di contribuenti o comunque di cittadini estranei a quel gruppo sociale che in tal modo
subiscono l’amministrazione di un loro interesse ad opera di organi che essi non hanno nominato e
che appartengono ad un altro gruppo sociale: questi contribuenti estranei sono così chiamati a
sopportare oneri per servizi che non godono o che non hanno domandato.
La solidarietà nazionale può richiedere, anzi richiede, che ciò avvenga molto spesso e che le regioni
più ricche sieno chiamate a contribuire a favore di quelle povere, ma poichè questa solidarietà è
mossa da interessi generali, proprio i principî dell’autogoverno segnalano che gli organi adatti per
tale attività sono quelli ai quali è normalmente affidata la tutela degli interessi generali, cioè gli
organi dello stato.
Autogoverno non significa amministrare i propri interessi con i mezzi altrui: se resultasse che le
autarchie amministrative non possono svilupparsi senza il concorso finanziario dello stato, variabile
secondo i bisogni, questo giustificherebbe all’opposto le tendenze centralizzatrici, la diminuzione
delle funzioni degli enti locali e gli intensi controlli di merito.
Perciò l’istituzione dei nuovi enti regionali presuppone la soluzione di un problema finanziario che
consiste in questo: stabilire quali sieno le risorse finanziarie nazionali che possono essere destinate
ai fini pubblici e accertato in quale proporzione debbano essere riservate all’attività amministrativa
dello stato per i fini propri e a quella degli altri enti pubblici essenziali, la differenza potrà essere
messa a disposizione dei nuovi enti intermedi in proporzione della capacità contributiva dei cittadini
che saranno organizzati nel nuovo ente pubblico.
Il problema è di competenza dei cultori della scienza delle finanze, ma non vi è pericolo di sbagliare
affermando che secondo ogni probabilità i mezzi finanziari a disposizione dell’ente regionale
saranno soltanto quelli risparmiati con il più economico ordinamento dell’amministrazione
pubblica. Per molto tempo non sarà possibile attuare in Italia un sistema decentrato che sia molto
più costoso di quello attuale centralizzato.
LE FUNZIONI AMMINISTRATIVE PIÙ ADATTE PER LA REGIONE
A proposito delle funzioni da affidarsi all’ente regionale — e questo è l’aspetto amministrativo —
possono formularsi due ipotesi: che lo stato conservi sostanzialmente immutate le proprie funzioni
giuridiche e sociali oppure che intervenga decisamente, magari attraverso una profonda riforma di
sistema, nel processo di produzione e di distribuzione della ricchezza. È ovvio che questa seconda
ipotesi non può essere considerata in concreto e che deve soltanto essere tenuta presente come una
eventualità per apprezzare le modificazioni che subirebbero in tal caso i termini del problema.
Le materie ritenute adatte per l’ente regionale dai vari progetti che si sono susseguiti dal Gioberti in
poi sono le opere pubbliche, fra le quali bisogna oggi includere quel complesso imponente di lavori
che si chiama ricostruzione: l’attività agraria, le minori comunicazioni, il lavoro, il credito, la
previdenza e assistenza e l’istruzione pubblica.
La polizia — salvo quella locale relativa alle funzioni proprie dell’ente — il sistema monetario, il
diritto civile e penale, il commercio e l’industria, il regime dei grandi mezzi di comunicazione,
l’igiene ed in genere tutta la disciplina amministrativa per fini generali sono materie proprie dello
stato.
Inoltre è secondo me conveniente, contro l’opinione più diffusa, dare a questi enti intermedi
funzioni tipicamente amministrative. Tanto maggiore sarà il prestigio delle regioni quanto minore
sarà il grado di apprezzamento politico generale di cui saranno suscettibili le materie affidate alla
competenza degli enti locali. È facile prevedere che fra breve gli italiani ne avranno abbastanza
delle impostazioni “rivoluzionarie” o “reazionarie” di modeste questioni amministrative in qualsiasi
modesto borgo taliano e del resto nel paese del selfgovernement è praticata molto seria
amministrazione e pochissima politica di partito. Neppure è da credersi che il costume democratico
e la formazione di una nuova classe dirigente sieno gran che favoriti dalle assemblee politiche locali
e dalle discussioni sui grandi problemi politici: gli uomini della democrazia si formano a contatto
con la realtà amministrativa e nelle serene valutazioni dei concreti interessi locali.
Ciò premesso non è possibile analizzare partitamente in questo breve articolo le materie che
sembrano, più adatte per la regione e valga soltanto qualche osservazione di orientamento.
Per lunghi anni in Italia le opere pubbliche saranno quasi esclusivamente opere di ricostruzione e i
lavori si svilupperanno in modo difforme perchè diverso è il loro grado di urgenza e di necessità e
perchè il paese è stato danneggiato in diverso modo e con diversa gravità. Perciò alcune regioni
avranno la precedenza sulle altre, alcuni lavori saranno preferiti, e poichè non è possibile che le
risorse locali sieno sufficienti per il finanziamento delle opere, occorrerà che intervenga lo stato a
risolvere i problemi locali della ricostruzione. Senza escludere quindi una competenza subordinata e
esecutiva della regione, questa non è materia adatta per un decentramento regionale e del resto, a
ben considerare, le iniziative e i criteri locali disordinati, intempestivi e particolaristici possono
rivelarsi più dannosi che utili.
Le opere pubbliche che fossero invece compiute al fine di nazionalizzare attività produttive — ad
esempio la produzione dell’energia elettrica — potrebbero essere affidate alla competenza delle
regioni o dei consorzi comunali, e le une e gli altri avrebbero, la possibilità di provvedere al
finanziamento di attività redditizie.
Quanto alle comunicazioni e ai trasporti (navigazione interna, ferrovie, tranvie, trasporti
automobilistici e aerei) il problema è negli stessi termini sopratutto per ragioni finanziarie. Se gli
enti pubblici avocheranno a sè alcune attività redditizie che oggi sono affidate all’iniziativa privata,
la regione, anche nei limiti territoriali attuali, è l’ente adatto; altrimenti — e anche la Russia sembra
che in questa materia abbia lasciato largo, campo all’economia privata — vale meglio lasciare le
cose sostanzialmente immutate e, comunque, queste funzioni, nei limiti in cui sono ora esercitate da
altri enti, non giustificherebbero l’istituzione della regione.
Lavoro, credito, previdenza e assistenza sono certamente suscettibili di ordinamento regionale sia
pure su basi territoriali un po’ più vaste delle attuali. Queste sono funzioni che giustificano la
regione ed il limite è soltanto finanziario perchè, non potendosi abolire una generale competenza
dello stato al riguardo, resta da considerare come la finanza italiana potrebbe sostenere il maggiore
onere dalle nuove e complesse burocrazie per molti aspetti simili a quelle corporative.
Quanto alla pubblica istruzione, esclusa quella elementare che se si considera di interesse locale
riguarda i comuni e se di interesse generale lo stato, l’istruzione media — e sotto certi aspetti anche
l’istruzione superiore — possono avvantaggiarsi in un ordinamento regionale. Con la soppressione
degli organi locali dell’amministrazione centrale dell’istruzione pubblica dovrebbe anche essere
evitato un maggiore onere finanziario.
Resta l’agricoltura. Se l’attività agraria dello stato rimanesse quella che è oggi, considerando
temporanea l’attività accessoria dell’alimentazione, non varrebbe la pena di repartire queste
pubbliche funzioni fra stato e regione.
Ma se una grande riforma agraria avviasse il paese alla socializzazione dei mezzi della produzione
agraria, non solo le funzioni pubbliche al riguardo sarebbero per loro natura proprie dell’ente
intermedio regionale, ma questi nuovi compiti, da soli, ne imporrebbero l’istituzione. Proprio i
prevalenti fini agrari di importanza essenziale per il paese caratterizzerebbero la regione nei limiti
territoriali tradizionali.
L’influenza delle esigenze finanziarie e delle funzioni fin qui esaminate porta a concludere che i
criteri di determinazione della base territoriale più adatta per la regione sono prevalentemente
economici, cioè lo spazio più opportuno è quello che consente di realizzare il minor costo dei
servizi compatibilmente con la piena efficienza delle funzioni e con la comodità dei cittadini. Penso
che dovrebbe essere notevolmente ridotto il numero delle regioni della repartizione del Maestri e
che questa riduzione dovrebbe essere maggiore nel nord che nel sud. Se invece la regione fosse
costituita come un ente a funzioni prevalentemente agrarie, la divisione attuale potrebbe rimanere
con qualche modificazione, attribuendosi l’Abruzzo in parte alle Marche ed in parte al Lazio,
unendosi l’Umbria al Lazio, il Molise alla Campania e la Lucania alle Puglie secondo il vecchio e
ragionevole progetto del Saredo.
IL DECENTRAMENTO AMMINISTRATIVO NEI SUOI RIFLESSI PREVALENTEMENTE
AMMINISTRATIVI
Il punto nero nel problema del regionalismo è dunque quello finanziario in relazione alle
difficilissime condizioni del paese che purtroppo dureranno a lungo. Ben diversa era la situazione al
termine della prima guerra mondiale.
Non solo i mezzi finanziari devono essere prevalentemente ricercati in una più economica
organizzazione dello stato senza che sia possibile ottenere grandi successi perchè ben pochi compiti
potranno essere realizzati esclusivamente dalle regioni, ma è da temersi che la regione appesantisca
rapidamente l’ordinamento proprio per quella tendenza alla burocratizzazione che è propria degli
italiani e per la scarsa resistenza alle pressioni locali in tal senso, che è caratteristica degli enti
autarchici.
Tuttavia è possibile agire in vario modo e in direzioni diverse.
In primo luogo possono essere soppresse le provincie senza gravi inconvenienti. I loro compiti, che
sono ristretti, in materia di opere pubbliche, di beneficienza e di assistenza, di sanità, di igiene e
d’istruzione pubblica, possono essere trasferiti in parte alla regione ed in parte ai comuni
eventualmente consorziati. Le loro risorse non sono cospicue, ma nemmeno neppure disprezzabili.
In secondo luogo può essere ridotto grandemente il numero dei comuni. La loro base territoriale è
divenuta in moltissimi casi anacronistica in relazione ai nuovi mezzi di comunicazione,
specialmente nell’Italia settentrionale e centrale. Poichè una riforma in tal senso incontrerebbe
notevoli difficoltà, un primo passo potrebbe essere fatto con l’istituzione di consorzi obbligatori fra
i comuni per l’esercizio delle principali attività comunali.
In terzo luogo può essere enormemente semplificato l’ordinamento periferico dell’amministrazione
centrale con l’attribuire alle regioni funzioni esecutive statali e può essere del pari profondamente
mutato il sistema dei controlli con generale vantaggio.
Il coordinamento della regione con lo stato non è problema arduo. Istituito un governatore regionale
che tenga luogo del prefetto, sia pure con funzioni diverse, e conservati magari uffici periferici negli
attuali capoluoghi di provincia (questure) per la rappresentanza del potere esecutivo centrale,
l’attività di controllo su tutti gli enti autarchici maggiori e minori della regione potrebbe essere
affidata ad un collegio in parte elettivo e in parte designato dal potere legislativo centrale che avesse
natura giurisdizionale.
Il governatore, assistito da vari funzionari, dovrebbe avere soltanto poteri ispettivi, da esercitarsi
con particolare serietà e diligenza. Soppressi i controlli preventivi, sarebbe compito del governatore
denunciare al collegio giurisdizionale di controllo le violazioni della legge e gli atti contrari alle
regole della buona amministrazione di cui venisse a conoscenza e di sostenere innanzi al collegio le
pretese di annullamento. Forse sarebbe opportuno ammettere il controllo preventivo governatoriale
per alcuni regolamenti regionali di maggiore importanza e attribuirgli il potere di sospendere, con
determinate limitazioni e garanzie, l’esecutorietà degli atti degli enti autarchici locali, compresa la
regione, nei casi in cui egli denunziasse gravi violazioni di legge.
In tal modo l’attività amministrativa locale sarebbe notevolmente snellita e resulterebbe rinvigorito
il senso di responsabilità degli amministratori locali liberi di agire senza autorizzazioni, ma
inesorabilmente colpiti per la loro mala amministrazione.
Poi la maggior parte delle funzioni esecutive statali, che ora sono esercitate da infiniti organi
periferici (ogni ministero ha i suoi organi locali), potrebbero essere affidate agli organi regionali e
alcuni addirittura ai comuni attualmente capoluoghi di provincia. Così nelle amministrazioni locali
vi sarebbero funzionari portatori di due organi, quello regionale o comunale e quello governativo:
questi funzionari potrebbero essere in parte nominati dagli enti locali ed in parte di nomina
governativa, incardinati nell’amministrazione locale. Quest’ultimo è il sistema, del selfgovernement
inglese e presenta molti vantaggi.
La nomina governativa accresce le garanzie di scelta senza che vi sieno inconvenienti politici
perché trattasi di funzionari di carriera sottoposti all’autorità regionale; lo stato esercita una indiretta
funzione di controllo perchè il funzionario è responsabile verso lo stato per le funzioni statali e di
solito un uomo non può essere onesto, competente e laborioso in alcune mansioni e in altre no;
inoltre la doppia qualità del funzionario armonizzerebbe certamente la duplice attività; infine i
servizi resi dall’organo regionale allo stato per interessi generali giustificherebbero, con assoluto
rispetto dei principi dell’autogoverno, l’intervento statale a favore della finanza comunale e
regionale.
Queste mie considerazioni non pretendono di essere uno studio completo della grave e complessa
questione della regione: sono soltanto un onesto tentativo per impostare il problema nei termini
storici e giuridici che a me sembrano reali e di avviarne la soluzione senza ingombri demagogici e
senza deplorevoli improvvisazioni.
MARIO BRACCI