Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha firmato la legge Calderoli sull’autonomia differenziata, mettendo in atto le parole da lui stesso pronunciate lo scorso 5 marzo, quando spiegò che il suo compito non è quello di vagliare il merito dei provvedimenti approvati dal Parlamento, bensì solo «attestare che le Camere hanno entrambe approvato una nuova legge nel medesimo testo». La promulgazione, dunque, pone fine ad alcuni retroscena sul possibile atteggiamento del Capo dello Stato, e apre riflessioni sul dopo, specie per chi voglia contrastare la nuova legge.

«FREQUENTEMENTE il presidente della Repubblica – disse Mattarella parlando a un gruppo di giornalisti il 5 marzo – viene invocato con difformi e diverse motivazioni. C’è chi gli si rivolge chiedendo con veemenza: “il presidente della Repubblica non firmi questa legge perché non può condividerla, perché gravemente sbagliata”, oppure: “il presidente della Repubblica ha firmato quella legge e quindi l’ha condivisa, l’ha approvata, l’ha fatta propria”». «Il Presidente della Repubblica non firma le leggi, ne firma la promulgazione, che è una cosa ben diversa. È quell’atto indispensabile per la pubblicazione ed entrata in vigore delle leggi, con cui il presidente della Repubblica attesta – aggiunse Mattarella – che le Camere hanno entrambe approvato una nuova legge, nel medesimo testo, e che questo testo non presenta profili di evidente incostituzionalità». Tutte parole pronunciate quasi presagisse quanto sarebbe avvenuto al momento dell’approvazione definitiva dell’autonomia differenziata da parte del parlamento.

IN ALCUNI RETROSCENA giornalistici nei giorni scorsi si era ipotizzato che il Quirinale avrebbe ritardato di molto la promulgazione della legge Calderoli, così da marcarne gli aspetti più critici. È vero, come hanno scritto altri, che Mattarella era parlamentare allorquando nel 2001 il centrosinistra approvò la riforma del Titolo V, con l’articolo 116 che introduceva la possibilità per le Regioni di chiedere l’autonomia differenziata; tuttavia la legge Calderoli di attuazione va oltre la lettera di quell’articolo 116; la ratio di quella norma era devolvere la competenza di qualche funzione o materia, più legata alle specificità territoriali, mentre la legge attuativa voluta dal governo Meloni prevede la trasformazione della Repubblica in uno Stato confederale, con la devoluzione di tutte e 23 le materie a tutte le Regioni.

Tuttavia la firma in tempi stretti da parte di Mattarella aiuta quanti intendono contrastare la legge promuovendo un referendum. La raccolta di 500mila firme, o la promozione del quesito da parte di cinque Regioni, possono partire solo dopo la promulgazione e la pubblicazione in Gazzetta ufficiale. Ed ecco che Mattarella ha proceduto. Come ha osservato su questo giornale ieri il professor Gaetano Azzariti le due vie, quella delle cinque Regioni e quella delle 500mila firme, non sono alternative, ed anzi possono essere complementari. In ogni caso su entrambe le strade i tempi stringono.

Il presidente della Regione Emilia Romagna, Stefano Bonaccini, eletto a Strasburgo, ha preannunciato le proprie dimissioni entro il 7 luglio, data dopo la quale il consiglio regionale non potrebbe votare la risoluzione per la promozione del referendum abrogativo. E senza l’Emilia Romagna, le Regioni amministrate dal centrosinistra scenderebbero a quattro. Anche per un referendum popolare i tempi per la raccolta delle firme, da concludere entro settembre, sono strettissimi e si aggiunge la difficoltà di una iniziativa sotto l’ombrellone di agosto. La firma accelerata di Mattarella, dunque, aiuta.

ANCHE I GIURISTI che stanno studiando la formulazione del quesito dovranno essere altrettanto celeri. Probabilmente occorrerà formularne almeno due, uno per l’abrogazione totale e uno per l’abrogazione parziale della legge Calderoli. Un quesito mirato su singoli articoli della legge servirebbe ad evitare le possibili obiezioni di ammissibilità da parte della Corte costituzionale, visto che abilmente il governo a suo tempo ne ha fatto un ddl collegato alla manovra di finanza pubblica proprio per renderlo non referendabile.

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