Il libro del magistrato Giovanni Tamburino Dietro tutte le trame Gianfranco Alliata e le origini della strategia della tensione (Donzelli Editore «Saggi», pp. 272, euro 27,00) non è solo affascinante. È ricco di indicazioni storiografiche, di ricostruzioni, attraverso i processi, di vicende militari e politiche, interne e internazionali, di tutto il dopoguerra italiano; pieno di storie di politici, ufficiali, golpisti, ideologi e guide dell’estrema destra italiana (e talvolta per niente estrema) ma pure dell’estrema sinistra. Perfino di annotazioni curiose, divertenti. Ma anche con relazioni dirette con l’oggi, a partire da un’introduzione che allude alla «guerra preventiva», preparata in Ucraina, ma che ha forti precedenti: anche in Italia.
Eppure è cauto, cautissimo come può essere un libro di un magistrato serio e abile e su una materia per niente semplice. Tamburino è stato il giudice istruttore di Padova che nel 1974 ha preparato la documentazione sull’inchiesta sulla «Rosa dei venti»: ancora oggi non è chiarissimo perché quel nome, ma si trattava di un gruppo eversivo di destra, ovvero dell’estremismo fascista e neofascista, che ebbe ormai dimostrate relazioni col servizio segreto italiano e con la massoneria. Dopo mesi, il 30 dicembre ’74 l’indagine gli venne tolta da una sentenza della Corte di Cassazione, e venne passata a un nuovo processo, che univa la «Rosa dei venti» al golpe Borghese avvenuto nel dicembre del 1970. L’inchiesta cambiò completamente, diventando, se così si può riassumere, molto più «annacquata» e incerta. E alla fine, nel ’75, il giudice andreottiano Claudio Vitalone in Cassazione invocò il «segreto di stato». E tutto terminò.
Oggi, dopo molti anni, e molti libri che hanno ripercorso (talvolta con errori) quelle vicende, Tamburino ricostruisce la sostanza delle proprie indagini, incrociandole con l’esito di tanti altri processi successivi che hanno fatto emergere molti documenti segreti e sconosciuti. Il suo così diventa un libro su tutta la «strategia della tensione» degli anni settanta e ottanta e poi dopo. Ma Tamburino procede sempre molto attento a non superare i limiti dell’inchiesta. Emergono in concreto i rapporti tra i servizi segreti (capi e sottocapi) e l’estrema destra (che si incrociò però – adesso è chiaro anche questo, anche se non tutto – con l’estrema sinistra). Fu la destra che provocò le stragi da piazza Fontana alla Stazione di Bologna e così via; e poi perfino i rapporti, ancora in parte da chiarire, tra la destra di Franco Freda e Giovanni Ventura e i brigatisti rossi. E c’è la massoneria (italiana e americana) che adesso si vede abbastanza bene dietro a quella tensione. Infine emergono i rapporti con i servizi americani e con quelli della Nato: si trattava di tenere il paese, e la politica, legata all’Alleanza atlantica. E ora si vede con coerenza una «strategia della tensione» ad ampio raggio, dove si possono capire bene, in particolare, la tattica del contestatissimo «rapporto Westmoreland» (vedi pp. 30, 109-110), fatto emergere pubblicamente nel 1981, in modo ambiguo, da Licio Gelli: e che sarebbe stata la dimostrazione concreta di come gli americani usarono quella strategia per conseguire degli obiettivi politici.
Nella seconda parte del libro Tamburino ricostruisce (sempre con estrema cautela) una vicenda che ancora oggi è praticamente sconosciuta: quella di un vertice della massoneria siciliana, il principe Gianfranco Alliata di Montereale, che appare aver avuto un rapporto fondamentale proprio con quella strategia (in proposito si segnala il notevole inserto di un altro autore, Maurizio Massignan alle pagine 203-225). Alliata nel dopoguerra fu un deputato monarchico assai ricco, che si costruì una struttura «culturale», l’«Accademia del Mediterraneo», di grande effetto perché stabilì rapporti solidi con la politica italiana, da Andreotti a De Gasperi a Paolo Emilio Taviani, ma anche con i servizi segreti: per esempio il generale de Lorenzo del «Piano Solo», entrò in quell’«Accademia». A dimostrare la forza di Alliata, soprattutto attraverso la massoneria americana, resta in particolare il suo ricevimento formale dal presidente americano, Eisenhower, nell’ottobre 1957.
Tamburino ha studiato il «fondo Alliata», migliaia di carte dell’ex deputato, conservate nell’Archivio storico della Camera e praticamente tutte nuove. Di lui si era già occupato, e l’aveva interrogato durante il processo di Padova come vero ispiratore e finanziatore dell’estrema destra veneta, compresa la preparazione delle stragi. Adesso, grazie a quel fondo, ha ricostruito molto meglio la figura di questo potente monarchico di estrema destra, attraverso i suoi documenti: e in particolare attraverso la corrispondenza di Alliata con chi iniziò le vere stragi in Italia. Ovvero, a Portella della Ginestra, il primo maggio 1947, Salvatore Giuliano e il suo vice Gaspare Pisciotta. I capitoli su di loro sono nuovi e, come sempre in questo giudice, cautissimi. Eppure gli scopi politici e perfino i finanziamenti per la strage di Portella adesso emergono con molta più chiarezza. Fu un eccidio (11 morti e 27 feriti) provocato dalla volontà di agrari e monarchici siciliani (ma forse non solo) di colpire la sinistra, che aveva avuto un recente successo politico.
Poi Giuliano venne ucciso a sua volta per evitare che parlasse in tribunale e descrivesse i suoi rapporti con l’estrema destra. E così pure Pisciotta. Oggi Tamburino può anche sottolineare i rapporti di Giuliano, un uomo addestrato durante la RSI, persino con il principe (anche lui) della X Mas, Junio Valerio Borghese; ma soprattutto, grazie alla documentazione della Camera, in grandi rapporti proprio con Alliata: anzi, Salvatore Giuliano addirittura «venerava» Alliata. E dal massacro di Portella si arriva così a trent’anni dopo, alle stragi sui treni, e si direbbe sempre con lo stesso movente: mettere in crisi un sistema politico che si spostava verso sinistra. Rimane aperto solo un problema: ma Alliata ebbe rapporti con la mafia? Tutto in ogni caso sarebbe poi terminato (ma non è detto) con la fine dell’Urss e il totale cambiamento della politica italiana negli anni novanta.
E adesso c’è anche il fondo Alliata. Manca solo la documentazione completa sia sui servizi italiani (non solo militari, ma anche del ministero dell’Interno), sia soprattutto su quelli americani e della Nato. Però emergono relazioni con pezzi della nostra storia che un po’ conoscevamo e un po’ no. In particolare, ora si può capire molto meglio – e Tamburino lo dimostra – che cosa stesse scrivendo Pasolini con l’allora inedito Petrolio: dopo di che fu ucciso (si vedano le pp. 134-137) e fu un omicidio ancora oggi misterioso. In proposito, se si può suggerire a Tamburino, è uscito da poco il libro di una giornalista, Simona Zecchi, L’inchiesta spezzata di Pier Paolo Pasolini (Ponte alle Grazie, pp. 433, euro 18,00). Esso porta alla luce altre carte pasoliniane: in particolare, le lettere che Pasolini scrisse e ricevette, a proposito della «tensione» e dei massacri che ormai da anni avvolgevano l’Italia. Il rapporto era soprattutto con Giovanni Ventura, editore, uomo dei servizi, forse soprattutto dell’Interno: ed ecco un altro libro di rilievo, Giacomo Pacini, La spia intoccabile (Einaudi, pp. 265, euro 28,00); e Ventura sapeva moltissimo della «strategia della tensione», a cui aveva robustamente collaborato di persona. Pasolini pensava alla responsabilità di Eugenio Cefis, presidente dell’Eni e della Montedison. E lo scrisse in Petrolio, un super-dettaglio che poi è stato cancellato e solo nell’ultima edizione è apparso. Ma Ventura non era d’accordo, la pensava più in grande; e a questo punto si può immaginare che lo scrivesse a Pasolini giustamente.
Infine, un dettaglio del libro di Tamburino (si vedano le pp. 39 e 102): il quale ricorda come l’estrema destra, servizi segreti compresi, avesse come punto di riferimento ideale il razzismo di Julius Evola e in particolare il suo libro Il mistero del Graal, pura esaltazione della «razza bianca» e del «capo guerriero». È allora il caso di ricordare che quel libro Evola lo pubblicò nel 1937 presso la casa editrice Laterza, quella di Benedetto Croce. Non fu Croce a deciderlo, ma lui di Evola non parlò mai male. In anni passati, su Croce-Evola ci fu una dura polemica. Ma su Il mistero del Graal finora non è emerso niente di serio a proposito di reazioni del filosofo napoletano al teorico del razzismo «bianco». Una storia davvero complicata, quella del Novecento, ancora tutta da capire: e non solo sull’estrema destra italiana.