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La chiusura dello stabilimento Beko in viale Toselli a Siena è molto più dell’ennesima crisi industriale. È la cartina al tornasole di un’Italia che fatica a trovare un nuovo modello di sviluppo, dove la retorica rassicurante della politica si scontra con la complessa realtà di un mercato che non garantisce più la continuità produttiva. Le dichiarazioni del vicesindaco Capitani, sebbene animate da una comprensibile volontà di tranquillizzare, seguono un copione purtroppo già visto: “nessuno resterà indietro”, “l’area è attrattiva”, “ci sono molti gruppi interessati”. Ma a leggere tra le righe, la situazione appare tutt’altro che risolta.
Il primo segnale d’allarme è la strategia del cosiddetto “spezzatino”: la divisione dell’area in più lotti. Una soluzione presentata come “plausibile”, ma che tradisce l’assenza di un investitore unico disposto a scommettere sul sito e su un progetto industriale di ampio respiro. L’esito di questa frammentazione è spesso una ricomposizione a basso impatto: piccole attività, logistica, terziario avanzato, che difficilmente potranno assorbire la forza lavoro con gli stessi contratti, salari e prospettive di un grande stabilimento. È la differenza tra creare occupazione e garantire occupazione di qualità.
I tempi lunghi e dilatati – il passaggio di proprietà a settembre, una delibera tra ottobre e novembre – confermano che siamo ancora nella fase degli assetti societari, lontani dalla vera e propria ripartenza produttiva. L’enfasi sulla “costituzione della società” rivela che l’architettura finanziaria e pubblicistica precede, e forse condizionerà, la visione industriale.
È qui che emerge il secondo segnale cruciale: il massiccio intervento pubblico. Il coinvolgimento di Sernet e l’attesa partnership con Invitalia sono la prova che il mercato, da solo, ha fallito. È il tipico pattern delle “aree di crisi complesse”, dove gli enti locali e nazionali tentano di supplire alle carenze degli investitori privati. Non è necessariamente una strada sbagliata, ma è un percorso a outcome incerto, soggetto a lentezze burocratiche e il cui esito finale è tutto da dimostrare.
Proprio su questo punto, l’articolo tace su questioni decisive: quali saranno i tempi effettivi di ricollocamento dei lavoratori? Quale tipo di produzione, con quali garanzie contrattuali e salariali, prenderà il posto degli elettrodomestici Beko? Senza risposte concrete, la retorica sull’attrattività del sito rischia di restare uno slogan.
Quello che emerge è un quadro in cui la politica, per evitare tensioni sociali, è costretta a mantenere un tono fiducioso, mentre dietro le quinte si consuma la fatica di un territorio che arranca per attrarre investimenti significativi. La vera sfida per Siena, quindi, non è solo riempire i capannoni vuoti. La sfida è farlo con attività ad alto valore aggiunto, capaci di offrire prospettive di carriera, competenze e un reddito dignitoso.
Mentre l’amministrazione costruisce l’architettura del salvataggio, i cittadini e i lavoratori attendono fatti, non annunci. Il futuro industriale di Siena si gioca su questo confine sottile tra la necessaria pazienza della politica industriale e l’urgenza di chi quel lavoro lo ha già perso. La reindustrializzazione, oggi, resta una dolorosa incognita.